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Passarono alcuni anni e accadde un vero miracolo. Accadde che fu trovato, da un gruppo di rinomati fisici teorici, che non solo il passato raggiunto da una crononave sarebbe stato sulla medesima linea temporale del presente ma che, se l’umanità avesse deciso di fare un viaggio nel passato, allora voleva dire che nel passato erano giunti degli uomini dal futuro. Fu provato, insomma, che le cose stavano come Lev aveva sperato ardentemente. Infatti fu dimostrato che ammettere che le cose non fossero così, voleva dire entrare in contrasto con niente di meno che la ben collaudata meccanica relativistica.

Lev tirò un sospiro di sollievo. Ora sembrava davvero possibile che il sogno fosse realizzabile.

Fu deciso di mettere in atto un esperimento, per dare la prova empirica delle verità svelate dalla teoria. Si decise di costruire un modulo automatico, da spedire nel passato. Il modulo sarebbe dovuto allunare in un ben preciso posto sulla superficie del satellite terrestre, aspettando di essere recuperato dagli uomini che lo avevano costruito, nel ventitreesimo secolo.

Durante la realizzazione della sonda Lev fu informato, in via del tutto riservata, di uno straordinario ritrovamento, avvenuto novant’anni prima, su Callisto, una luna di Giove, durante lo scavo di una miniera, e tenuto nascosto dai servizi segreti. Si trattava di una sonda in tutto e per tutto simile a quella che si stava realizzando nel suo laboratorio.

La cosa sembrava sconcertante. Chi mai avrebbe potuto costruire un  modulo crononautico, settant’anni prima che la crononautica nascesse come scienza? Come poteva tale modulo essere uguale a quello che si costruiva ora, nel più avanzato laboratorio del Sistema Solare?

Per Lev la risposta era abbastanza semplice. Era chiaro che il modulo che giaceva smembrato nella sua officina sarebbe stato, in un futuro, completato da qualcuno e lanciato verso una destinazione temporale anteriore a novant’anni prima di allora, e verso la destinazione fisica in cui fu poi effettivamente trovato.

In definitiva l’esito dell’esperimento fu considerato positivo, senza nemmeno dover finire di costruire la sonda. Inoltre l’opinione pubblica fu affascinata da questo campo di ricerca, fu letteralmente rapita dalle prospettive che generava la crononautica. Così i finanziamenti piovvero ancora più abbondanti e il sogno di Lev di andare incontro a Dio, per ora tenuto segreto, sembrava sempre più vicino.

Anche le opposizioni ambientaliste e religiose contro la crononautica persero ben presto la loro forza e non costituirono più un problema.

Per quanto riguardava la sonda che si stava costruendo, essa fu riposta incompleta in un enorme magazzino. Dopo duemila anni di intricate vicissitudini, fu infine spedita verso il lontano 500 D.C., in quel punto del suolo di Callisto in cui fu ritrovata, più di millesettecento anni dopo.

*

Lev stava raggiungendo la stazione Pax in orbita intorno al pianeta Marte. Poteva constatare dal suo oblò i miracoli compiuti da un secolo di colonizzazione. Ocra denso si alternava a verde intenso e a blu profondo. Grigi apparivano i tentacolari insediamenti umani. Le immagini dell’arido pianeta rosso erano ormai ricordi sbiaditi di generazioni sepolte.

L’uomo rimase, durante la noiosa operazione di attracco della navicella, rapito da quella immagine di vita novella, stupito dall’enorme portata delle azioni umane, dal loro straordinario potere di creare un mondo. Egli non pensava più al suo lavoro, al motivo per cui era lì; non era padrone, in questa circostanza, dei suoi  pensieri e la sua mente rimaneva sospesa su idee vaghe, su emozioni nuove.

Ma presto richiamò all’ordine il suo cervello. Non lo riportò però al suo consueto oggetto, perché si soffermò a riflettere su un certo disagio provato davanti alle distese di nuvole dell’atmosfera di Marte.  Quell’atmosfera era figlia del lavoro dell’uomo, pensò, ed era una cosa grandiosa. Ma quanto cara era costata? Quante specie animali autoctone avevano pagato il prezzo dell’addolcimento del clima del pianeta e della estrazione dell’acqua dal sottosuolo?

Lev stava pensando al processo con il quale era stato trasformato il pianeta. Si era operato portando su Marte specie fotosintetiche, alghe e vegetali, per liberare grandi quantità di ossigeno. Tutto questo era stato iniziato senza aver effettuato un completo censimento di tutte le forme di vita presenti nel pianeta. Ne conseguì una rapida estinzione del novanta percento delle creature marziane. Quando ci si accorse della straordinaria ricchezza della fauna presente sul pianeta e della gravità della catastrofe ambientale che si stava producendo era troppo tardi: le specie erbose erano già sfuggite al controllo dei coloni e lo stesso era accaduto alle specie planctoniche, introdotte nei bacini artificiali.

Lev allora ricordò il senso di desolazione provato, da piccolo, davanti al corpo imbalsamato di un gasglobulo, conservato al museo delle scienze della sua città. Si trattava di un esemplare di una specie colpita dalla grande estinzione. Questa creatura aveva vissuto per millenni nei mari sotterranei di Marte, sospesa ad una certa profondità da una sacca gonfia di gas prodotto dal suo stesso metabolismo. Era un essere cieco con una raggiera di sfiatatoi per governare il moto nelle profondità degli abissi. Di colore bianco panna, con una fitta peluria diafana e tentacoli trasparenti, quell’artefatto tassidermico era una delle ultime, misere testimonianze di un mondo perduto.

L’uomo, pensava Lev, poteva realizzare grandi cose, ma anche immani catastrofi. Che la crononautica avesse davanti a sé questo stesso destino?

Lo sbuffo della porta stagna della carlinga ricondusse Lev al perché della sua presenza sulla sfolgorante Pax. Era lì per parlare con l’ingegnere D. Smith delle sue vele solari. Avrebbe fatto volentieri a meno di questa trasferta interplanetaria e avrebbe fatto volentieri a meno di andare a elemosinare, da un ingegnerino occhialuto, briciole di conoscenza. Ma il fatto era che esisteva un certo riserbo sulle ricerche di Smith e dunque, se Lev voleva delle notizie, doveva procurarsele di prima mano.

Avevano offerto a Lev un alloggio dove rinfrescarsi e un giro di ispezione della enorme stazione. Ma lui non aveva alcuna intenzione di perdere più tempo dello stretto necessario a bordo della Pax. Nel suo giro turistico avrebbe imparato qualche cosa di utile sulla crononautica? No, dunque era inutile perdere ore preziose. Così partì all’attacco, chiedendo di poter incontrare subito questo ingegnere. Gli indicarono il dipartimento di astronautica ed egli si scrisse sul  taccuino la sigla dello studio di Smith.

Come muoversi nella struttura orbitante? Lev non era abituato ai corridoi a gravità zero ed era piuttosto impacciato, mentre procedeva per brachiazione, tenendosi ai corrimano.

Comunque raggiunse il dipartimento e fu felice di ritrovarsi con i piedi per terra. C’era un brulichio di giovanotti che si spostavano su e giù per le leggere e borbottanti  scale di metallo che collegavano i piani realizzati con graticole. C’era chi si affannava a un terminale, chi in piedi scorreva velocemente dei tabulati, chi scaricava nel proprio palmare dei dati dai computer, chi  spostava fascicoli da una postazione a un’altra, chi – con gli occhi fissi sul proprio monitor – sorseggiava del caffè , chi discuteva sbracciando con un suo vicino. Il tutto in un intreccio di cavi che correvano ovunque, in un luccichio di monitor e di luci a neon. Era decisamente un ambiente troppo affollato e chiassoso, pensò Lev. Ma non si scoraggiò.

«Mi scusi, cerco la stanza 103-AN» disse a un ragazzo che sostava pensoso, con un panino in mano, davanti a dei calcoli scritti su una lavagna.

«Cosa dice? La stanza 103-AN?» rispose il ragazzo, gettando un occhio sul taccuino presentatogli da Lev. «Non ho idea di dove sia» disse, incrociando per un attimo gli occhi dell’uomo e tornando alla sua lavagna. Un secondo e il ragazzo si girò di scatto nuovamente verso Lev, che era rimasto impassibile. «Il dottor McArthur, Lev McArthur! E’ lei, non è vero?»  sbraitò il ragazzo, mentre passava il panino dalla mano destra alla sinistra, per stringere la mano all’omone barbuto che aveva davanti. «Sono un suo ammiratore, ho letto tutti i suoi articoli, lei è un maestro…» e il ragazzo incominciò a gesticolare e a parlare a voce alta mentre l’uomo, dietro la sua maschera immobile, si rimproverava di avere interpellato la persona sbagliata.

«Senta, la prego, cerco l’ingegnere Smith.» disse Lev, approfittando di una pausa nella logorrea del giovanotto. Intanto più di una persona aveva alzato gli occhi dal suo lavoro, per guardare verso il dottor McArthur.

«Certo, Smith.» disse il giovanotto ricomponendosi, «Guardi, deve salire lì e percorrere quel corridoio. Il suo studio è dietro la terza porta.» e poi riprese «Non sapevo che sarebbe venuto qui sulla Pax, non ce lo hanno detto, non lo sapevamo…» Il ragazzo non aveva finito di parlare, che McArthur gli voltava già le spalle, dirigendosi verso la scala. Intanto, dietro di lui, si radunò un gruppetto di persone le quali guardavano alternativamente il ragazzo e Lev, che si allontanava. All’uomo le parole degli astanti arrivarono solo come voci confuse.

Diana stava verificando la resistenza di un pannello di vela solare, sul suo terminale. Le davano sempre un piacere intenso le simulazioni al computer di sistemi fisici. Provava ancora lo stupore di una studentessa nel constatare come un modello matematico potesse rendere prevedibile il comportamento di complicate strutture, di realizzazioni che non esistevano neanche. Era una fortuna, pensava Diana, che il mondo fosse governato da leggi immutabili e che queste leggi fossero scritte in forma intellegibile all’intelletto umano, cioè come equazioni differenziali.

Per quanto la riguardava, avrebbe passato tutta la vita a trovare modelli matematici di fenomeni fisici. Eppure si era data all’ingegneria, perché? Vecchia domanda questa, quesito irrisolto, dolore nascosto. C’erano fondamentalmente due motivi. Il primo era che, in cuor suo, Diana sapeva di non essere abbastanza brava per fare scienza. Aveva una considerazione troppo alta della ricerca pura, per poter pensare che una come lei avesse potuto praticare la fisica a pieno titolo. Aveva conosciuto gente davvero in gamba e, dal confronto con queste persone, aveva dedotto di non essere abbastanza sveglia. In secondo luogo viveva del mito dell’uomo rinascimentale il quale, nella sua officina, crea macchine, costruisce edifici, realizza grandi opere. Il progettista disegna e soffre sui suoi disegni, poi sceglie la materia e inizia a lavorare. Crea e tutti possono vedere ciò che ha creato. Il suo è un lavoro intellettivo, poi un lavoro materiale che modifica l’ambiente, conferendogli l’impronta dell’uomo. E il suo lavoro è bello ed è utile ed è apprezzato dagli uomini; è fatica e passione e tutti possono vederle; è ingegno che è donato alle persone e che resta nel tempo. E con lui lavorano altri uomini, che lo ammirano e per i quali lui nutre amore e riconoscenza. Il naturalista invece non crea nulla. È semplicemente un osservatore. Di suo non mette nulla nel suo lavoro. Minore è il carico di schemi mentali e di idee preconcette che riversa nelle sue speculazioni e meglio è. Il naturalista è arido e questa, per Diana, era la cosa peggiore che si potesse dire di un essere umano.

Bussarono alla porta. «Avanti!» disse la donna, mentre Lev già stava entrando. Rimase fuori a metà e, leggermente proteso verso l’interno, disse «Senta, sto cercando l’ingegnere Smith».

«Lo ha davanti» disse Diana, con un sorriso cordiale, mentre si alzava e porgeva la mano all’omone barbuto, avvolto in una austera giacca scura con cappuccio. “Ecco un monaco francescano” pensò la donna con un velo di immediata simpatia.

«Ah, ma certo, naturalmente.» disse Lev avvicinandosi al tavolo e allungandole la mano. «Sono il dottor McArthur», disse. «Piacere».

Davanti a lui l’uomo aveva una giovane donna dai capelli molto corti e spettinati. Con giusto una forcina a tenere a bada una ciocca, sul lato sinistro della fronte, e ad abbozzare una scriminatura da una parte, l’ingegnere dava una idea di  rigore ed essenzialità.

«Non l’aspettavo così presto, non ha perso tempo. Prego.» disse la donna indicando la sedia davanti al suo tavolo. Lev si girò per chiudere la porta dietro di sé e si sedette col busto ritto e i piedi appaiati, come uno scolaretto. «Senta» cominciò, «sono qui per sapere il più possibile del suo sistema di propulsione, delle sue vele stellari.»

«Noi preferiamo chiamarle vele solari… in fondo non vogliamo mica andarci fuori dal Sistema Solare, non è vero?» disse Smith, assumendo un’espressione affabile e scherzosa.

Questa battuta ricordò a Lev tutta la difficoltà della sua missione, lì sulla Pax. Il fatto era che ormai doveva render noto il suo progetto, il suo figliolo, partorito in tante notti, in attesa dell’alba, e tenuto segreto per molti anni. Era necessario ormai che almeno l’ingegnere lo conoscesse, perché lei sarebbe dovuta entrare per forza a far parte della sua squadra.

Ma come fare a parlare di una  cosa così fuori dalla norma, di una cosa così assurda, di un viaggio verso Dio? Era difficile e Lev prese il discorso alla lontana, cosa inusuale per lui. Incominciò con  il fare i complimenti all’ingegnere per il suo straordinario lavoro. Passò poi a chiedere il motivo di tanta riservatezza sui progressi delle ricerche. La risposta era ovvia, era per non favorire l’accanita concorrenza. Ma intanto era qualcosa da chiedere, per rompere il ghiaccio. Lev parlava e ascoltava con la testa china, lo sguardo basso, alzato, di tanto in tanto, verso la donna. Era perplesso.

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L’ingegnere, che probabilmente avvertiva il disagio di Lev, anche se non se lo spiegava, fece una proposta. «Che ne dice di parlare nella sala ristoro davanti ad un cioccolato caldo? C’è una finestra panoramica con una vista straordinaria.»

«Cioccolato caldo? Che roba è?» pensò Lev, che aveva dimenticato anche il sapore degli alimenti di evasione. «Senz’altro» disse però immediatamente. In fondo avrebbe potuto prendere tempo per trovare il modo migliore per vuotare il sacco.

Dipartimento di Astronautica. Corridoio, scale, chiasso. Di nuovo i passaggi a gravità zero. Brachiazione. Affanno nello stare al passo di quella ninfa in scarpe da ginnastica. Battute di circostanza. Continuo rovello su cosa dire, su come esporre un sogno, un’idea da pazzo.

Una davanti all’altro, erano seduti a un tavolino, proprio vicino al grande pannello trasparente aperto su Marte. Mentre Diana beveva dalla sua tazza, Lev ispezionava rapidamente il volto della donna. In realtà quello non era l’ingegnere che si aspettava. Non se lo era immaginato così giovane e, soprattutto, non così bello. La fronte alta e i colori chiari del volto davano una sensazione di infantile innocenza. Gli atteggiamenti scherzosi e amichevoli denotavano un  approccio ludico all’esistenza. Ma il taglio sottile degli occhi e l’espressione spesso assorta, conferivano a Diana la inquietante profondità di un mistico  medioevale.

Tuttavia, pensava Lev, l’aspetto fisico non deve avere alcuna importanza nel rapporto con gli altri. Infatti che differenza può fare, se i pochi centimetri cubi di carne che costituiscono un naso, sono distribuiti in un modo anziché in un altro? Cosa cambia se il colore di un’iride è ocra luminoso o blu profondo? Il dottor McArthur si diceva che per non essere turbato dal bell’aspetto di Diana doveva pensare al suo corpo come a una scatola che racchiudesse il cervello; doveva pensare agli occhi come a un’interfaccia di quel cervello col mondo; ai capelli come a una imbarazzante eredità dei nostri poco aristocratici antenati e, nello stesso tempo, come a una curiosa protezione del cervello. In effetti, rifletteva Lev, quando lui si relazionava con una persona, erano i loro due cervelli che si relazionavano, utilizzando il corpo per questo contatto.

Ciò non di meno, l’aspetto di Diana risvegliava echi antichi dal profondo dell’animo del dottor McArthur.

«Senta ingegnere, guardi, io ho bisogno di lei per realizzare un’impresa di una portata che va oltre ogni immaginazione, un’impresa che cambierà la storia dell’Umanità e del cosmo.»

Ecco fatto, aveva sputato il rospo. Ora avrebbe raccolto l’espressione stravolta di Smith, si sarebbe scusato per le sue parole, avrebbe proferito un “come non detto” e se ne sarebbe tornato al suo tranquillo studiolo, al quarto piano di una fatiscente costruzione, nel centro della sua città, sulla Terra.

Diana rimase interdetta, restò a fissare il curioso individuo che aveva davanti. Era un arcinoto scienziato che cavalcava il razzo della crononautica, la disciplina più di moda degli ultimi anni. Era un uomo schivo: di lui, nei congressi, arrivavano solo dei comunicati, letti da degli assistenti. Ma la sua fama era enorme, il suo astro era uno dei più luminosi. Quello che diceva doveva per forza avere un senso.

«Di cosa si tratta dottore?» rispose dopo un po’.

«Mi dica, lei non si è mai chiesta il perché di questa enorme cattedrale che è il nostro universo? Sbaglierò, ma non mi sembra una donna che possa vivere solo di quotidianità. E’ vero?»

Certo, McArthur aveva ragione, pensò Diana, ma ora che c’entrava questo con le sue ricerche? Che voleva quest’uomo? Perché tentava di entrare nella sfera privata, in quella stanza dell’animo carica di umano dolore e di perché?

«Gli esseri umani sono su una barca in acque aperte» riprese Lev. «L’uomo comune, per lo più, evita di esaminare l’orizzonte monotono nello spazio e nel tempo. Preferisce concentrarsi sulla vita di bordo, passare il tempo a vivere. Ma c’è inevitabilmente qualcuno, il filosofo, che spinge con ansia lo sguardo sull’infinita distesa d’acqua, che indugia sulla scia dell’imbarcazione, sulla prua che taglia il tempo immacolato, sull’orizzonte, in cerca di una meta possibile.»

«Ma la Natura ci offre tanti svaghi, tanti particolari, tanti colori, tante sfumature; tante di quelle cose che praticamente si potrebbe restare per un tempo infinito a indagare su tutto ciò, come fanno gli scienziati. La loro è una buona occupazione per non cadere nell’abbattimento, nel vuoto, nella disperazione di chi guarda il nulla senza fondo. Essi sono marinai che si concentrano sulla nave, ma che ignorano la rotta e lo scopo del viaggio.»

«Eppure a volte mi chiedo se la Scienza non potrà arrivare a un punto tale di comprensione da poter spiegare il grosso mistero: perché c’è quello che c’è, ed è come è» disse McArthur, finendo per accalorasi, mentre gli occhi erano diventati di  fuoco. «Perché?» aggiunse agitando le mani.

«Ebbene» riprese poi con più calma «lei può aiutarmi a realizzare un miracolo, a portare l’uomo oltre i confini del mondo, a portarlo al cospetto di Dio. Mi creda è possibile! Mi creda è doveroso.»

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2 thoughts on “Biogenesi, parte 3

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