Ho scritto questo racconto nel 2006 e nelle mie intenzioni originali doveva svilupparsi in un romanzo. Ma quel progetto è stato anche lui vittima della malattia. Alcuni anni dopo riuscii a confezionare un racconto (quello che segue) utilizzando l’80% del materiale scritto in alcuni giorni frenetici, prima che mi trasformassi di nuovo in una statua e i miei pensieri rallentassero, fino a fermarsi. Due frammenti esclusi dal racconto hanno reclamato una vita propria e possono essere trovati qui e qui.

Quello che leggerete è il resoconto della guerra di alcune persone contro una malattia misteriosa (guarda caso). All’epoca non sapevo nulla di ME/CFS ma ero già malato da diversi anni. In alcuni passaggi troverete una discreta descrizione della patologia e della disperazione (depressione reattiva) che ne può conseguire in alcuni casi.


“La chimica del cervello e del corpo oscilla adattandosi alle fluttuazioni di temperatura e illuminazione del pianeta, e probabilmente anche in risposta ai suoi campi elettromagnetici.”

 Kay Redfield Jamison

Questa raccolta di documenti eterogenei rappresenta un tentativo di rendere noti i retroscena delle vicende le quali condussero alla risoluzione della grave crisi sanitaria che tanti danni portò agli uomini e alle loro attività. Essa è costituita esclusivamente dalle lettere, dai diari e dai racconti degli artefici della nostra salvezza, individui tra i quali ho il privilegio di potermi annoverare.

 *

Da una lettera di Angela Landau allo zio. Roma, 12 luglio 1966. Caro zio, sai che venni qui in Italia per dedicarmi allo studio e all’utilizzo del metodo del potassio-argo, procedimento di datazione dei tufi che rivoluzionò, una decina di anni fa, la geologia e la paleontologia. Venni qui perché è qui che fu inventato, qui a Roma. Lo sai, ero convinta che avrei contribuito a determinare la datazione di importanti reperti fossili, attraverso i responsi forniti da un orologio eccezionale le cui infallibili lancette si muovono alla velocità di decadimento del potassio-40 in argo. Velocità che, in un grammo di potassio ordinario, è di circa 3,5 atomi al secondo.

Tic: un atomo di potassio-40 diventa argo. Tac: sono passati 28,57 centesimi di secondo e un altro atomo di potassio-40 è ormai argo. Tic. Tac…

Come sai questa idea è sfumata, per tanti motivi. Tu dunque vuoi sapere di cosa diavolo mi stia occupando adesso, cosa esattamente mi metta tanto su di giri. Finalmente te lo posso dire, perché il mio progetto sta assumendo una forma più definita.

E allora seguimi, ti racconto una storia. C’era una volta, migliaia di anni fa un bel fiume vigoroso che dalle austere vette di monti imbiancati scendeva per valli e altipiani. Dopo aver attraversato chilometri di paesaggi maestosi giungeva a un ampio lago, specchio del cielo. E ben felice di contribuire alla magnificenza del bacino, a esso si donava, riversandovi le sue acque e – attenzione! – tutti i frammenti rocciosi che esse avevano raccolto lungo il tragitto e trasportato con sé. Questi frammenti, trovandosi ormai in acque placide, potevano finalmente fermare la loro corsa, lasciandosi cadere sul fondo. Cullato dai secoli il fondale morbido del lago si fece pietra, preservandosi così fino ai nostri giorni. Per venire poi triturato dal martelletto di una geologa impertinente come me…

A parte gli scherzi la morale è questa: nel materiale arrivato nel lago ci sono, oltre ai clasti più grossi (da alcuni centimetri a qualche millimetro di diametro), anche frammenti minuscoli, un particellato microscopico. E in questo particolato c’è sempre qualche elemento che possiede una polarizzazione magnetica. Pertanto, quando questi frammenti vanno a depositarsi, si orienteranno percentualmente secondo il campo magnetico terrestre. La loro orientazione poi si preserva nei millenni grazie alla litificazione del fondale.

Tu sai che un fenomeno per certi versi simile avviene quando le lave solidificano, e che grazie all’analisi di questo fenomeno è stato possibile identificare e datare degli episodi di inversione di polarità nel campo magnetico terrestre. Ma devi sapere però che mai è stato possibile risalire invece, con questo tipo di analisi, alla quantificazione dell’intensità assunta, di volta in volta, dal campo magnetico terrestre durante la storia del nostro pianeta.

Ebbene, secondo la mia idea, rilevando, nelle rocce sedimentarie, la percentuale degli elementi polarizzati che si orientano parallelamente al campo magnetico terrestre, si dovrebbe poter dedurre l’intensità del campo magnetico stesso nel corso delle ere geologiche.

Ora sono in attesa di parlare con il professor Augusti, il quale si occupa di matematica applicata alla Facoltà di Ingegneria. Come io sia finita a sbattere la testa laggiù ti sarà chiaro quando potrò descriverti il lavoro che intendo fare.

Da una lettera di Angela Landau allo zio. Roma, 17 settembre 1966. Un vichingo ipermetrope, così è Augusti. L’ho cercato a lungo questa mattina, girandomi tutta la sede di ingegneria, seguendo le voci di studenti e di docenti che lo davano ora qui ora là. Il bello è che noi due avevamo un appuntamento alle nove, presso il suo studio. Ma in fondo, mi sono detta, io sono la questuante e la pazienza non deve farmi difetto.

Quando disperavo ormai di incontrarmi con lui, ecco che lo rintraccio al bar della facoltà. In piedi, con un bicchiere sospeso a mezz’aria in una mano, e con l’altra mano gesticolante che sistemava ogni tanto i massicci occhiali, parlava vivacemente con due giapponesi, due professori di Tokyo, come seppi. Che scena! Augusti faceva vibrare potentemente l’aria con un inglese pronunciato in modo imbarazzante (erre sonore, interdentale th sfacciatamente pronunciato come dentale, e così via). Lui era affabile e allegro, laddove i giapponesini sembravano tutto contegno e austerità.

Sono rimasta fuori ad aspettare che il professore si liberasse, succhiando un chinotto e rimuginando sui fatti miei. Ogni tanto però gettavo uno sguardo verso i tre e cercavo di capire a che punto fosse il loro discorso.

Inizialmente i nipponici, vantando la loro superiorità in fatto di automazione e meccanica, stavano sostenendo che sarebbero stati in grado di realizzare ben presto delle macchine con un corpo simile, per forma e prestazioni, a quello dell’uomo. Augusti di contro faceva notare che il problema non sarebbe stato tanto quello di costruire un dispositivo del genere, ma piuttosto quello di dotarlo di intelligenza…

Qualche tempo dopo gli asiatici si erano ormai sciolti e mi sono stupita nel sentirli commentare il campionato di calcio italiano. Mi sono cascate le braccia, in fine, quando hanno cominciato a parlare di donne. Tuttavia, a questo punto ero rincuorata dalla convinzione che un tale argomento non lo avrebbero potuto sostenere a lungo, che la conversazione si sarebbe esaurita presto; e con essa la mia attesa. Ma mi sbagliavo.

Una quarantina di minuti dopo, mentre stavo contemplando in una nuvola la forma di uno smilodonte, i tre escono finalmente dal bar, fermandosi davanti la porta del locale per prendere commiato. I due stranieri, dopo stretta di mano e inchino si sono allontanati al passo, ciascuno con una valigetta nella mano destra. Per un poco sono stata a osservali procedere verso il Colosseo e ho sorriso fra me, chiedendomi se quei robot antropomorfi di cui avevano parlato non fossero in realtà proprio loro. E così mi sono persa Augusti che sfrecciava elastico verso la scalinata della facoltà. Via! Cercando di tenergli dietro mi presento: «Salve, sono Landau».

«E allora?» dice lui, rivolgendomi un’occhiata veloce, senza fermarsi. La scalinata la facciamo di volata: due gradini alla volta lui, zampettando frettolosamente io.

«Avevamo un appuntamento, nel suo studio, un paio di ore fa.» mi sono permessa timidamente di dire, mentre arrancavo.

Stop! Ottimi freni il professore! Si pianta nell’atrio dell’edificio e mi guarda.

«Landau? Ha ragione, mi scusi. Il fatto è che ho dovuto discutere di importanti questioni con due colleghi in partenza per Tokyo. Erano cose urgenti. Sono mortificato.» mi ha detto, finendo per deviare lo sguardo dal mio.

 Certo, questioni vitali! Ma almeno è vagamente arrossito nel parlare e ciò mi è parso un indice significativo di onestà.

«Sì, capisco, si figuri. Anzi la ringrazio per aver preso in esame la mia proposta.»

La diplomazia non è una mia dote innata, ma col tempo si impara anche quella.

Mi ha portata nel suo studiolo, al dipartimento di Informatica e Sistemistica, dove ero andata a cercarlo in principio. E mi ha fatto accomodare. Presa la presentazione del mio progetto, che gli avevo fatto recapitare giorni addietro, si è seduto davanti a me con un’espressione seria e concentrata. Nei secondi durante i quali ho atteso le sue parole, mentre lo guardavo negli occhi, ho provato tutta intera la paura del rifiuto, paura che avevo esorcizzato nei giorni precedenti.

«Senta Landau, per quello che posso capirci io di geologia, l’idea sembra buona, molto buona. Ma non è questo il mio campo, come sa.»

«Perfetto!» mi sono detta. «Questo non vede a un palmo dal suo naso, nel senso che non vuole sconfinare oltre la sua disciplina. A quanto pare non se ne fa nulla! Sono al punto di partenza. Per la miseria!»

«Tuttavia», ha continuato, «mi sono consultato con alcuni colleghi. Vede, mio cognato lavora in questo settore. Insomma, credo che si debba assolutamente provare a realizzare la sua ricerca, prima che lo faccia qualcun altro.»

Mi stava dicendo quindi che mi avrebbe sostenuto. Notizie come queste non si metabolizzano istantaneamente: io credo che vengano stoccate in un locale della mente, messe sotto chiave e lasciate a decantare. Dunque, una reazione fredda e distaccata in casi del genere non deve sorprendere. Io in effetti sono rimasta impassibile e silenziosa, nonostante avessi capito perfettamente ciò che Augusti mi stava dicendo.

Il professore ha proseguito: «Però credo che lei non abbia idea della difficoltà di questo studio. Spero che per quanto riguarda il reperimento e la preparazione dei campioni lei sappia il fatto suo. Dovremo avere del materiale ben organizzato e abbondante, mi ascolta? Ce ne servirà una montagna, non scherzo!».

Io continuavo a tacere, fissando i suoi occhi. Che razza di occhiali, pensavo. Sembra impossibile che riesca a vedere attraverso quelle potenti lenti di ingrandimento. Occhi da gufo, così grandi da sembrare finti…

«Per quanto concerne il modello matematico del fenomeno di sedimentazione, non essendoci molta letteratura in proposito, saremo un po’ dei pionieri. Ma voglio che capisca la complessità del lavoro da fare: dovremo tenere conto della forma dei clasti, della loro dimensione, della loro densità, dell’entità della loro polarizzazione…» diceva Augusti, usando le dita per contare i punti.

«Della velocità presunta delle acque, della loro composizione, della loro temperatura…» ho proseguito io che continuavo a non tradire alcuna emozione.

«Esatto!» disse compiaciuto Augusti. «E per integrare il modello matematico dovremo effettuare delle prove empiriche di sedimentazione. Dovremo alzare insomma un bel polverone, coinvolgere anche altri ricercatori. Lo capisce questo?»

Lo capivo, ma a quel punto avevo cominciato a soffrire l’eccitazione e non riuscivo a essere seria, costruttiva e preoccupata. Augusti continuava a parlare, facendo considerazioni di carattere logistico e descrivendo il tipo di calcolatori di cui avremmo dovuto fare uso. Io però non ricordo bene cosa abbia detto. Rammento solo che verso la fine del nostro incontro mi ha chiesto: «A proposito, lei sa scrivere in Fortran, vero?».

«Sì, come lei sa parlare inglese!» mi sarebbe venuto da rispondere. «Sì, ho avuto la fortuna di imparare da mio fratello» ho detto invece.

Dal diario di James Aronson. Mosca, 10 novembre 2027. Tutti si ammalano e io, che sono stato male per anni, ora rinasco. Però devo essere onesto con me stesso e riconoscere che i miei annosi problemi di salute mi hanno prostrato, tanto fisicamente che mentalmente.

Dove sono finiti tutti i miei archivi mentali, il mio vecchio orgoglio? Restano solo quattro ricordi sbavati, reperti troppo miseri anche per l’archeologo più sagace. E della fisica, della chimica e del resto? Che ne è stato?

Poco fa mi sono imbattuto in una nube confusa di unità di misura. Il joule e l’erg si guardavano affranti, indecisi se abbracciarsi o meno, incapaci di ricordare quale fosse il rapporto che li legava. Il tesla cercava di raccogliere il secondo, che correva in preda alla confusione, mentre il volt si accapigliava con l’ampère, che con un braccio stringeva al suo petto. E se il cavallo vapore cercava disperatamente di disarcionare il watt, il newton e la dina aggredivano verbalmente il corpulento chilogrammo peso, il quale subiva in silenzio. Ho visto poi il bar e il pascal vagare disperati in cerca del torricelli. E la mole, il coulomb e la nazione vociante delle costanti fisiche, numeri senza nome e senza misura, popolo di terremotati che torna alle proprie case, dopo il cataclisma…

A quanto pare le ricerche sui labor sono andate avanti a grandi passi e molte delle vecchie strumentazioni, quelle su cui ci facevano esercitare quando studiavo qui, non esistono più o hanno subito sostanziali cambiamenti. Pensavo di ritrovare il mio vecchio mondo, ma mi sbagliavo. Non ho nessuna dimestichezza con questi strumenti e sebbene sia stato a smanettare a lungo, non ho concluso quasi nulla. Per ora sono riuscito solo a far funzionare la macchina per il curling test, facendola andare su qualcuno dei nuovi arti che ho trovato giù all’assemblaggio.

Una cosa almeno non è cambiata: le braccia idrauliche continuano a essere di gran lunga le più potenti anche se, nonostante abbiano subito delle discrete migliorie tecniche, la loro precisione continua a lasciare molto a desiderare. È incredibile, ma ho trovato ancora degli esemplari delle serie Coleman, i fantastici giocattoloni a pistoni idraulici, con motore a combustione interna. L’arto superiore di uno di questi rumorosi labor mi ha sollevato fino a 95 kg al curling test, e sembrava non mostrare ancora cenni di fatica. Comunque, ho dovuto interrompere le prove perché il condotto per il deflusso dei residui della combustione non aveva un tiraggio ottimale.

Probabilmente è solo grazie a macchine come queste che l’economia mondiale ha retto al diffondersi di questa strana epidemia. È una fortuna che i labor siano indifferenti alle malattie.

Passo la notte nel magazzino e mi addormento alla vista delle mani meccaniche, abbandonate supine sui piani degli scaffali; delle numerose braccia, appese alle rastrelliere; della collezione infinita di articolazioni di ogni tipo e misura. Tra gli infallibili motori elettrici e le splendenti leve idrauliche. Con a fianco uno snodo cardanico, che ho fatto girare all’infinito tra le mie dita, rapito, come un bambino con il giocattolo nuovo.

Dal diario di Valeria Cavalli. Mosca, 11 novembre 2027. Alla fine se n’è andato anche Tao Lee. Un’altra vittima di questa assurda malattia. Ormai qui sto restando veramente da sola e credo sia il caso di chiedermi se abbia senso continuare il mio lavoro in tali condizioni. È quasi impossibile combinare qualcosa di concreto, senza il contributo di tutti gli altri. Certo, potrei accollarmi interamente la parte sulla definizione degli algoritmi di apprendimento, quello in fondo è il mio campo. Al limite posso pure rimpiazzare Tania e i suoi, con le simulazioni sulla plasticità. Ma con la sintesi molecolare come la metto? Senza la sintesi dei circuiti non posso avere modelli reali delle reti, e senza avere dei sistemi reali su cui poter fare i test è chiaro che non sarò mai in grado di sapere come indirizzare gli sforzi! Sì, potrei sempre provare a basarmi esclusivamente sulle previsioni statistiche, magari rispolverando le simulazioni di… come si chiamava quello? Samarskij. Ma sì, se non sbaglio, gli emulatori di Samarskij li abbiamo ancora nel laboratorio didattico.

Eppure, se quei software sono stati abbandonati da tempo in favore degli esami sperimentali, un motivo ci sarà. È inutile che mi faccia illusioni sull’accuratezza delle simulazioni al calcolatore. Le nostre reti molecolari sono imprevedibili: la loro risposta agli stimoli non può essere anticipata da nessun modello matematico. O meglio, può anche darsi che gli emulatori diano risultati accurati per i primi istanti successivi all’avvio delle reti, ma sicuramente quando poi iniziano a verificarsi le variazioni casuali e si manifestano gli effetti della plasticità, ogni predizione diventa impossibile.

Questo d’altra parte è il vecchio problema del progetto, la causa di tutte le nostre tribolazioni, l’origine del suo fascino e il sale della mia esistenza. Già! Più penso al valore straordinario di quello che ho la fortuna di fare ora e più mi convinco che debbo andare avanti, anche da sola, crollasse il mondo! E d’altra parte questo dipartimento è la mia casa: uscita da qui non saprei dove andare.

Di tornare in Italia con un tale caos non se ne parla. Visti i disordini che si stanno verificando, questo è il posto più sicuro in cui stare, specialmente ora che l’università si sta spopolando. Tra l’altro mi pare che i servizi automatici continuino a funzionare bene e finché lo stato di cose non cambierà, il dipartimento e tutta la città universitaria saranno un ottimo ricovero per sottrarsi alla pazzia collettiva.

Se solo il professor Irtnev si riprendesse! Lui sa come sintetizzare le reti molecolari, quelle piccole, pestifere bestiole che ci hanno sempre riempito di orgoglio con il loro comportamento imprevedibile e la loro smania di mutare, di espandersi, di imparare.

Già! Ma ora persino il nostro rude professore, la cattedrale (come lo chiamiamo), 190 cm di arti massicci, cammina a grandi passi verso la depressione più nera. Fa effetto vedere il suo busto colossale ripiegato sul tavolo coperto di carte, nel buio dello studio. Da quanto tempo non alza più un dito? Due mesi? Tre? Viene qui la mattina di buon’ora («Tanto non dormo più!» ripete tragicamente), si chiude là dentro, incarna una versione pateticamente disperata del Pensatore di Rodin per tutto il giorno e poi, dopo il tramonto, riemerge dalla sua stanza, come un vampiro che sbuca dalla cripta. A quel punto mi saluta mesto e se ne va. Dove? Mi dicono che qualcuno lo abbia visto perduto nei vicoli più bui della città, a girare all’infinito. Come per tentare di perdersi, in quel labirinto di strade. O come se cercasse disperatamente qualcosa, per terra. Forse il filo di… chi era? Arianna?

Ma il mondo riprenderà a girare, prima o poi. Dovrà pur finire questa pazzia collettiva. E inoltre sono sicura che gli ingegneri di Kanpur, nonostante tutto, staranno lavorando a testa bassa per essere i primi a presentare al mondo uno stramaledetto Molecular Net Brain. Figurati se quelli non approfittano della situazione per recuperare terreno. Con la forza lavoro che possiedono non avranno problemi a riempire i buchi dovuti alle defezioni per malattia e, bene o male, porteranno avanti il programma. Mentre qui io resto da sola.

Eppure non posso accettare l’idea di dover lasciare questa gara, non posso rinunciare al sogno di avere finalmente nelle mie mani un cervello a reti molecolari, e di vederlo magari montato su uno di quei bellissimi labor dell’edificio di fronte.

A proposito, lì al Dipartimento di Meccanica e Automazione mi pare sia arrivato un tale in questi giorni. L’ho visto passare e ripassare dietro le finestre, affacciarsi, girare qua sotto. Pare qualcuno che conosca il posto, che ci sia già stato.

Mi fa piacere che in questo fiume limaccioso di malata tristezza ci sia finalmente un salmone a risalire la corrente. Credo che alla fine qui resteremo solo noi due, solitari dirimpettai, a studiarci dalle rispettive finestre.

Dal diario di James Aronson. Mosca, 20 dicembre 2027. Anche oggi, se alzo gli occhi dai miei calcoli, la vedo, oltre la finestra del terzo piano della sede del Dipartimento di Intelligenza Artificiale, dietro il monitor del computer, tutta presa dal suo lavoro. Spulcia un fascicolo, digita qualcosa, si alza per andare a impostare un altro calcolatore o per procurarsi dei volumi, poi si risiede, pensa, posa la montatura leggera e guarda all’esterno, persa. Allora sistema il laccio che stringe la coda fluida dietro la nuca, o lo toglie, a volte, lasciando libera la massa serica dei capelli. Quindi indossa nuovamente gli occhiali, inspira, e riprende il lavoro.

Ma come faccio a conoscere questi particolari se da qui distinguo poco più della sua silhouette? Forse lavoro di fantasia. Devo procurarmi un binocolo…

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E intanto la situazione degenera. Ormai le dimissioni illustri, per depressione, non si contano più. Neanche i capi di stato o le teste coronate sono immuni al contagio della disperazione.

Disperazione? Di questo si tratta? Non lo so. Per me, all’inizio, non fu perdita di speranza: fu perdita di forze, di lucidità soprattutto. Non di gioia di vivere, di motivazione. Almeno in principio. Solo dopo, quando cominciai a dover passar settimane e mesi senza poter imparare, senza riuscire più a produrre, a capire, a pensare, allora cominciai a essere divorato da una angoscia feroce, insonne, insistente. Era il dolore per il tempo che si consumava invano, per gli innumerevoli giorni che andavano malamente sprecati.

Ho montato un Coleman R06, così, per riprendere la mano. Ora si trova nell’officina, senza testa, attaccato all’unità per il controllo manuale. Ci ho giocato un po’. Ma mi sono stufato presto, anche per il fragore dei suoi passi, per il baccano del suo motore e per il problema dei prodotti della combustione che sono male evacuati dal tiraggio. Così l’ho fatto mettere nella posizione dell’uomo vitruviano e ho cominciato a usarlo come attaccapanni, e come stendi panni. D’altra parte, qui il mobilio è quello che è.

Ogni tanto poi, quando ho voglia di fare esercizio fisico, gli faccio tenere ben alta una sbarra di metallo, in posizione orizzontale, e mi ci appendo con le mani, tirandomi su.

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Ho scoperto una cosa intrigante: in questo dipartimento, prima di interrompere le attività, stavano sviluppando un materiale nanotecnologico in grado di contrarsi a seguito di opportuni stimoli elettrici. Qualcosa di molto simile insomma al tessuto muscolare animale.

Adesso mi è chiaro allora lo scopo di quei femori metallici rinvenuti in magazzino. Ma sono enormi!

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Dal diario di Valeria Cavalli. Mosca, 23 dicembre 2027.  Mi sono alzata alle 7.00, mi sono vestita e ho preso la mia solita colazione, giù, al consueto tavolo del centro servizi.

Ieri ho chiuso la luce all’una, lasciando da sola Genoveffa (sto dando un nome a tutti i calcolatori del dipartimento, per sentirmi meno sola) a districarsi con il problema dell’involuzione dei distretti periferici del gruppo temporale sinistro. Infatti quello che può succedere è questo: per qualche imprevedibile combinazione di stimoli esterni, di fragilità intrinseche (non identificabili a priori) nella struttura del Mnb, e di particolari assetti delle infinite molecole che lo compongono, una parte del cervello comincia, a un certo istante dall’avvio, ad avere un deficit di funzionamento. A quel punto i nostri tanto vantati fattori neurotrofici iniziano a stimolare il resto del sistema per compensare la perdita di efficienza: così, mentre il flusso ideativo viene convogliato in una regione, l’altra, quella in avaria, si indebolisce; e mentre lei si indebolisce il resto si ingolfa. A lungo andare i parametri fisici di funzionamento superano i limiti di sicurezza e il sistema abortisce.

«L’imprevedibilità delle reti molecolari» ci ripeteva spesso, con un’espressione rapita, il professor Irtnev «affonda le radici in una ineludibile proprietà della materia: l’indeterminazione degli stati degli atomi…»

Basta adesso con queste divagazioni. A lavoro! Ora sono le 8.04 e mi trovo al mio posto di combattimento. Per oggi mi propongo di esaminare le applicazioni del teorema di Minkowski alla omeostasi dei nuclei frontali. Questa sera, prima di cena, vado nel laboratorio di Tania e vedo quello che ha combinato Genoveffa.

Ore 21.09. Vado a cena col distributore automatico. Già, mi metto qualche cosa di elegante (uno dei camici bianchi di Tao?), do una ravviata ai capelli, passo un velo di ombretto sulle palpebre e scendo. Servizio automatico: AUtomatico, SERvizio… AUSER. Sarà questo il nome del distributore! Vado da Auser dunque.

Quel tale del Dipartimento di Meccanica e Automazione ancora resiste. Tra l’altro spesso dall’edificio di fronte esce un gran baccano, neanche ci fosse dentro una locomotiva a vapore. Non so cosa stia facendo, ma certo lavora parecchio, più di quanto si sia mai lavorato in quel dipartimento di sfaccendati bambinoni.

Da alcuni giorni lo vedo uscire, quando ancora la luce stenta a penetrare l’atmosfera umida della notte, e mettersi a correre nella neve, lungo Viale Liapunov, fra le due schiere di aceri monumentali. Già, scende a balzi la scalinata del dipartimento, raccoglie una manciata di neve, se la sbatte sul viso e affronta la strada completamente invasa dalle foglie. Va verso Est, ogni volta, e mentre arranca nella spessa coltre che inghiotte le sue gambe a ogni passo, lo vedo scomparire sotto la galleria dei rami scheletrici.

Domani è la Vigilia di Natale, per quello che me ne importa. Non festeggerò: ho già festeggiato il Solstizio d’Inverno, due giorni fa, con una barretta di cioccolato.

Dal diario di Valeria Cavalli. Mosca, 19 gennaio 2028. Giorno 9.861 dalla mia nascita, ultimi giorni di questa nostra specie. No! Sono sicura che le cose si risolveranno. Certamente i migliori neuroscienziati del pianeta staranno lavorando a pieno regime, come matti, per curare… i matti, se così si possono chiamare le vittime di questa incredibile epidemia.

Già, ma il problema è che di lucido forse non c’è rimasto più nessuno. Fortunatamente i sistemi automatici e la manodopera labor possono compensare la colossale perdita di forza lavoro umana. Ma questo non vale per tutti i settori e, soprattutto, non vale per la gestione e la supervisione delle macchine stesse.

Alla fine, ho deciso di parlargli, a quello dell’edificio di fronte. Così ieri mattina sono stata ad aspettare, dietro la minuscola finestra del portone di ingresso, che uscisse per la sua corsa mattutina.  Attendevo con una speranza indefinita, col desiderio che quel ragazzo, di cui ignoro ogni cosa, mi facesse sentire la sua voce. Per ascoltare di nuovo, in questa desolazione, un linguaggio articolato che non sia quello che risuona, prodotto di fantasia e di memoria, nella carne della mia testa; o quello che debbono sorbirsi Genoveffa e Auser, quando parlo con loro, cioè quando parlo da sola.

Ho atteso dunque e ho sperato, e mi sono indispettita per la mia speranza. «Perché» mi dicevo, «debbo bastarmi da sola!». Perché, rimuginavo, avendo a che fare con quel tizio avrei solo perso tempo, avrei solo accumulato ritardi sulla mia tabella di marcia. «Ma quale tabella di marcia!» pensavo poi. «Non c’è nulla che possa combinare qui, da sola. Chi voglio prendere in giro?»

Eccolo lì: giaccone da aviatore, guanti, sciarpa annodata sotto il mento e capelli al vento. Lo vedo scendere la breve scalinata che dà sulla strada.

Dopo un’iniziale esitazione, e un mezzo ripensamento, mi affretto a tirare l’anta del massiccio portone. La tiro quel tanto che basta per uscire e mi infilo nell’apertura, mentre già il braccio di richiamo la richiude, spingendomi verso l’esterno, verso un muro di neve che non avevo previsto, che non avevo visto. Insomma, mi sono ritrovata con la neve davanti, fino alla pancia, e lo stipite chiuso, alle spalle, che non voleva riaprirsi, essendo scattata la serratura. Allora, un po’ imbarazzata, ho fatto un cenno all’uomo, il quale ormai mi aveva notata, lanciandogli una voce: «Salve! Scusi, potrebbe…».

«Salve!» mi ha risposto subito, facendomi un cenno anche lui. «Buongiorno! Bella mattinata, vero?» ha aggiunto poi, mentre già si metteva a correre lungo Viale Liapunov, come ogni giorno.

Sono restata a guardarlo stupita, cercando nel frattempo di farmi spazio tra la neve, per riuscire a girarmi su me stessa e a tirami fuori da quella trappola. Allora ho pensato: «Supponendo pure che non si sia accorto delle mie difficoltà, cosa comunque poco verosimile, rimane tuttavia alquanto curioso il fatto che non si sia fermato a parlarmi, viste le circostanze».

Però, mentre aprivo il portone, spingendolo con la spalla destra e tutto il mio peso, mi è parso evidente l’aspetto comico della vicenda: due individui sembrano i soli a essere rimasti sani in un mondo sconvolto da un morbo minaccioso, vivono l’uno dinnanzi all’altro da due mesi senza scambiarsi una sola parola, e quando alla fine si incontrano l’unica cosa che riescono a fare è lanciarsi a distanza un mezzo saluto.

Mentre spingevo dunque ho sorriso. Chiusomi alle spalle il battente ho riso. Seduta sulla rampa di scale che porta ai piani superiori ho pianto.

first steps

Dalla memoria di PAC. Mosca, gennaio-marzo 2029. Notte: ore 2.18. La luce della strada, filtrata da imposte accostate, disegna delle linee sul soffitto. Forse sono solo in questa stanza. Non posso ascoltare. Non posso muovermi. Non ho un corpo. Un calcolatore mi istruisce, una balia ronzante. Sono stato lasciato a far girare qualche programma, qualche frammento della mia mente…

Mi vedo nel riflesso di un monitor spento. Non capisco bene quale forma io abbia, dove io finisca e dove inizino le altre apparecchiature…

La dottoressa Cavalli è sempre con me, seduta al mio fianco, a un terminale. Accenna una dolce melodia, con una sola consonante. A volte me la vedo davanti, nel suo camice bianco, che stringe una cartellina sul petto. Mi sorride, mi chiede come mi sento, aggiusta qualcosa dietro di me. Regola la velocità del flusso di dati provenienti dalla mia nutrice: quando è eccessivamente elevata i pensieri corrono troppo, e mi stordiscono. Così io chiamo Valeria, perché mi curi…

Il signor Aronson mi tormenta ogni giorno. Mi gira, mi tocca, mi aggiunge dei componenti, delle membra, non lo so. Parla con Valeria: spesso litigano e James se ne va; a volte sorridono e si allontanano insieme…

Vedo passare nel mio campo visivo tutte le parti di un grande scheletro metallico, tutti gli elementi di una struttura poderosa. E anche una teoria infinita di organi oblunghi: piccoli e grandi fasci di un tessuto lattiginoso, avvolti da una nuvola di cavi e di vasi. Un intrico da ordinare, un gioco che assorbe James giorno e notte…

Sto crescendo. Sto imparando dalla nutrice, con grande rapidità. Il mio peso aumenta continuamente e comincio ad avere consapevolezza del mio corpo…

Due serbatoi di idrogeno prendono posto nella mia cavità toracica. Viene avviato il mio sistema autonomo di alimentazione: inspiro ossigeno con avidità; lo mando giù, verso il motore che ossida l’idrogeno, producendo energia. Ed espiro vapore, lentamente. Piccoli movimenti degli arti…

Viale Liapunov al mattino: la pelle rugosa degli aceri; le loro lacrime brune, riscaldate dal lavorio della decomposizione; gli edifici luminosi di pietra e di vetro; i cristalli di ghiaccio che si disfano e gocciolano ovunque, e si perdono lungo la strada. Seguo con gli occhi il vapore che si disperde, il vapore che viene dal mio petto, dal silenzioso motore a idrogeno che genera elettricità, facendomi vivere. Primi passi dietro a Jim, stringendo le mani di Valeria. Torreggio sui miei genitori: sono un gigante…

«E ora dobbiamo dargli un nome. Tu cosa hai pensato?» chiede mia madre a James. E lui: «Non hai mai amato qualcuno? Qualcuno che non c’è più?».

Sento a mala pena il bisbiglio di lei: «Già. Chi non ha perso qualcuno a cui teneva? Mio padre si chiamava…».umanoide 2.jpg

Dal diario di James Aronson. Mosca, 5 maggio 2029. Pierre è insaziabile: passa buona parte del suo tempo ad assorbire nozioni dai computer dell’università. E mi sottopone mille quesiti. Ora sembra stregato dalla paleoantropologia.

Ma ancora non produce nulla di suo, nulla di originale. E forse mai lo farà. E poi cosa può importarmi, adesso che Valeria comincia a mostrare i primi segni del male: ha difficoltà a leggere, a concentrarsi. Lei lo nega, ma io posso vederlo. Spesso mi accorgo che si muove a fatica, come se la forza di gravità fosse improvvisamente aumentata. Il suo eloquio si fa stentato, piatto. Cosa resta della donna talentuosa che mi ha affascinato?

Io ho già passato tutto questo, prima dell’epidemia. E per poco non ci ho lasciato la pelle. Nessuno mi salvò dalla degradazione allora, nessuno volle sporcarsi le mani con me, che affogavo nella merda. Devo evitare a Valeria tutto questo…

Sono guarito quando tutti gli altri si sono ammalati: secondo me debbono essere intervenuti dei cambiamenti ambientali su scala globale. Il mio cervello, che in condizioni ambientali normali andava in avaria, in queste nuove condizioni ha recuperato un funzionamento corretto. Di contro tutti i cervelli che prima erano sani ora, a causa di questo mutamento, registrano un cattivo funzionamento.

Sì, ma cosa è cambiato? La temperatura? L’irraggiamento solare? I livelli d’inquinamento atmosferico? La quantità di radiazioni cosmiche?

Domande senza speranza.

Dalla memoria di PAC. Mosca, maggio 2029-febbraio 2030. Ho paura. Resterò solo. Gli umani sono destinati a scomparire, come accadde per Homo neanderthalensis, 35.000 anni fa. Sparì e lasciò i suoi territori agli umani che venivano dall’Africa. Ma adesso chi rimpiazzerà gli umani? Forse noi labor? Saremo all’altezza?

Mia madre è malata. Mi siedo accanto a lei e la veglio. Ho preso l’abitudine di leggere i libri di carta, visto che ormai la fornitura di energia elettrica è discontinua e i computer non funzionano più. Le leggo la storia dell’evoluzione umana. Lei però non mi segue: la sua mente si disfa, posso sentirlo. Lei stessa lo sente, e ne soffre. Un essere umano può accettare di perdere la propria mente?

James è sicuro che una soluzione per Valeria debba esserci, e per tutti gli altri. Dice che troverà una cura, e per cercarla non dorme più. Tormenta mia madre con farmaci sempre nuovi.

«E continua la danza dell’ago del bilancino da chimico: 250, 300 o 400 mg? O niente?» diceva Aronson un giorno, fra sé. E continuava: «Capsule d’ostia, polvere fine, eccipienti. Orribile pasto di preparati galenici. Capsule dal sentore di colla, meticoloso lavoro delle mie dita. Ridurre, aumentare, sospendere. Aggiungere e togliere. Aspettare gli effetti delle modulazioni, sospeso, studiandola. Nutrire speranza, disperarsi. Illudersi e disilludersi. Questi infiniti li ripeto ormai all’infinito!»…

Ho inserito in memoria l’elenco dei farmaci e le relative proprietà: amisulpride, bupropione, clomipramina, escitalopram, fluoxetina, fluvoxamina

«Divinità del pantheon di qualche oscuro popolo preatlantideo.» mi rivelò Aronson una volta. E raccontò: «Trazodone doveva sedere sul trono vetusto del regno echeggiante dei mari. Sertralina era sicuramente la statuaria dea della bellezza. Si sa inoltre per certo di come Bupropione fosse il titanico fabbro della famiglia divina». Credo di non aver compreso questo suo discorso…

Ho assemblato il complicato organo di fonazione che trovai rovistando nel magazzino. È uno strumento molto versatile, ma è difficile da usare. Sto imparando. Devo trattenere il vapore che sale dal mio motore, per un po’. Quando raggiunge la giusta pressione lo soffio attraverso questa corona di linguette metalliche che ho inserito nel mio collo. E devo stare attento a lasciarle libere di vibrare per tratti più o meno lunghi, a seconda dei casi. È difficile e faccio tanti errori, ma sto imparando. E con esse parlo e suono, oppure suono melodie mentre ci canto sopra. Passo parecchio tempo a provare un motivetto molto dolce, un po’ triste forse, non lo so: si intitola Green leaves

Gli esseri umani hanno realizzato l’incredibile. Ed è una frustrazione pensare che non sarò mai alla loro altezza. I figli dovrebbero essere migliori dei loro genitori, ma questa possibilità a noi labor è preclusa…

«Vi estinguerete come i neanderthaliani.» ho detto una volta a James. Dopo qualche tempo, lui è venuto da me, stravolto dalla stanchezza e dalla disperazione di mesi di ricerche, e di inutili prove.

«Si estinsero in poche generazioni.» ho spiegato. «Nessuno sa dire il perché.» E ho continuato: «Se non è morto e non se n’è andato, puoi cercare di risolvere questo mistero da K. Björn, non molto lontano da qui»…

Jim mi ha affidato la mamma. È uscito a cercare risposte, col cuore alleggerito dal sollievo di un’assurda speranza.

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Dalla lettera di addio di K. Björn. Mosca, 10 febbraio 2030. Oggi è venuto nel mio regno maleodorante di libri ingialliti, di sporco, di scheletri ammassati come vittime di un antico olocausto, un giovane uomo. Già lo fissavano minacciosi, con le orbite vuote, le schiere di calchi di crani dei nostri antenati, e i teschi massicci delle antropomorfe estinte, persi nel buio.

«Lasciate che passi, fatelo entrare!» ho comandato. «Il ragazzo è arrivato da me a portare notizie dalle province perdute di questo mio impero!»

Io sono pazzo, lo so. Sono alla fine. Ma lui era sano, non scherzo! Un uomo in salute, con vigore nel corpo e desidero nel cuore. Con una mente vivace ed equilibrata, e una domanda per me.

Per un po’ l’ho fissato, mentre tentavo di forzare la mia inerzia mentale. Lentamente ho cercato di rimuovere, con una mano irrigidita dal male, le deiezioni che coprivano i miei abiti. E ho raddrizzato il mio busto a fatica, lentamente, puntando le mani sul bordo della mia scrivania. Ho fatto scivolare sul pavimento, con un braccio, i residui di cibo e i libri e le carte che ingombravano il mio tavolo. Poi ho detto: «Prego signore, si accomodi nel mio studio. Qui, davanti a me.

Dei neanderthal mi chiede? Della loro estinzione? È arrivato forse anche lei alla soluzione di questo indovinello? Alla causa di questa malattia? No? Allora mi ascolti, per quello che serve ormai».

Da dove avrei potuto iniziare la storia? Sì! La regina delle storie: la storia dell’inizio della supremazia della nostra specie su questo pianeta, il centro della mia vita miserabile.

Raccolsi le forze e cominciai: «Cosa sa lei di musica? Sì, di musica! Mi guardi! No, non sto farneticando! Non in questo momento almeno. Cominciamo dal principio allora, ripassare un po’ non ci ucciderà.

Lei sa che i suoni altro non sono che vibrazioni delle molecole di un mezzo, che sia aria, acqua o altro. E una nota è una vibrazione identificata da una precisa frequenza, cioè da un preciso numero di oscillazioni al secondo della materia che la veicola. Il la centrale per esempio, quello prodotto percuotendo il diapason, ha una frequenza di 440 hertz, come sa. Ci siamo? Dunque proseguiamo.

Si chiama ottava un intervallo di frequenze che va da un certo valore al valore a esso doppio. In genere, in molte culture umane, si è diviso questo intervallo in dodici parti, ottenendo dodici intervalli minori detti semitoni. In questo modo si fissano tredici suoni, l’ultimo dei quali ha frequenza doppia rispetto al primo e sembra al nostro orecchio uguale a esso, ma più acuto. Mi segue? Sì, è sveglio lei! Bene, andiamo avanti.

Per qualche motivo noi uomini, per comporre le melodie, abbiamo sempre avuto la tendenza, in epoche e in culture diverse, a scegliere solo sette di questi suoni, le note musicali appunto. Ma queste note non sono, in termini di frequenza, equidistanti fra loro. In particolare, se considera le note do-re-mi-fa-sol-la-si-do scopre che il primo intervallo è di due semitoni, il secondo anche, il terzo invece è di un semitono, il quarto di due semitoni, così come il quinto e il sesto, mentre il settimo è nuovamente di un semitono. Una tale scelta di intervalli fra le note porta alla costituzione di quella che si chiama una scala diatonica. In Occidente l’uso di questo tipo di scala è millenario, essendo stato perfettamente formalizzato già 2.500 anni fa, nell’ambito della Scuola Pitagorica. Pensi!

Questa scala è sopravvissuta poiché, per qualche motivo, ci piace; ci sembra la più adeguata a comporre musica. Eppure avremmo potuto scegliere infinite scale musicali diverse: per esempio avremmo semplicemente potuto prende delle note divise da identici intervalli di frequenza. Invece abbiamo quasi sempre preferito una scala diatonica, più o meno consapevolmente. Questo perché probabilmente il gusto che proviamo per essa è legato all’architettura stessa del nostro cervello, alla natura della nostra intelligenza. Affascinante vero?

Bene, ora torniamo ai nostri neanderthaliani. Più di trenta anni fa, nel sito neanderthaliano di Divje Babe, in Slovenia, venne rinvenuto un curioso manufatto risalente a circa 55.000 anni or sono. Fu il dottor Turk quella mattina a notarlo, mentre perlustravamo per l’ennesima volta le nostre grotte, sempre stregati da quell’odore di eternità; sempre con il brivido della consapevolezza di essere osservati dalle stesse pietre che ascoltarono i racconti dei cacciatori neanderthaliani, che vegliarono la nascita dei primi dèi di questo mondo, e delle prime saghe.

Turk, il mio collega, il mio amico Ivan, ripassò dove io avevo camminato più volte e notò quello che a me era sfuggito: un osso cavo, la parte centrale del femore di un giovane orso. Un semplice osso, perso fra i resti sparpagliati delle prede degli ominidi che consumarono lì i loro pasti, per innumerevoli generazioni.

Eppure quel fossile di una decina di centimetri era speciale, diverso da ogni osso presente in quelle grotte, unico in tutto il mondo. Poiché su di esso una mano aveva praticato quattro bei fori, molto precisi.

Cosa poteva essere quell’oggetto? Mi dica! Vede che lo sa? Certo! Era uno strumento musicale, il primo strumento musicale nella storia di questo pianeta! Era un flauto.

E fu Bob Fink, fra gli altri, a studiarlo, e a concludere che – si tenga amico! – quei fori erano stati praticati in modo tale da ottenere quattro delle sette note di una scala diatonica. Quello strumento sarebbe ancora oggi, per noi esseri umani, un ottimo mezzo per comporre musica. Capisce mio caro?

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E allora il punto è questo: i neanderthal, pur se massicci cacciatori in grado di spezzare tranquillamente tutte le ossa a un culturista dei nostri giorni, avevano animi raffinati, avevano una cultura sofisticata, e un orecchio forse più sensibile del suo alle variazioni di frequenza dei suoni, caro il mio sapiens! Erano insomma umani, pur non essendo degli esseri umani. Inquietante vero?

D’altra parte il loro cervello era morfologicamente diverso dal nostro, ma era anche mediamente più grande. E nessuno probabilmente saprà mai quanti miti, quante storie e invenzioni quel popolo seppe produrre. Perché furono loro il prodotto più alto dell’evoluzione della vita sulla Terra. Non noi!

Ma lei forse vuole saperne di più sull’origine dei neanderthal. No? Avanti! La lezione è gratuita, ed è breve.

Come saprà la temperatura media del pianeta subisce, nei millenni, oscillazioni molto marcate. E questo per fenomeni astronomici ben noti e prevedibili, ma anche a causa di tutta una serie di fattori ancora in parte sconosciuti. Comunque quello che ci interessa adesso è che durante i ricorrenti periodi di glaciazione la percentuale di acqua ghiacciata aumenta e, di conseguenza, il livello delle acque scende. Così molti tratti di crosta sommersa affiorano, rendendo possibile la migrazione delle popolazioni di animali terricoli.

Ebbene, a una glaciazione di più di un milione di anni fa risale la diaspora di Homo ergaster, specie ominide che aveva conquistato l’Africa dopo averla contesa, nel corso di due milioni di anni, a un ginepraio di altri primati bipedi. E questo H. ergaster si diffuse in Europa e in Asia, lasciando però anche molti esemplari in Africa. E in ogni continente generò nuove specie, creature ancora più intelligenti.

I neanderthal allora, come avrà capito, sono i figli europei di H. ergaster, isolati nel Vecchio Continente da un lungo periodo interglaciale. Noi siamo invece i loro figli africani, e ci siamo evoluti sotto il sole dei tropici. Quando poi, durante l’ultima glaciazione, di nuovo fu possibile uscire dall’Africa, la nostra genia si disperse nel mondo, usurpando i propri fratelli. Edificante vero?

La terra ha chiuso da tempo le gole dei neanderthal, ed è diventata pietra. Tutto quello che resta di loro sono sparuti fossili maltrattati dal tempo, con i quali ho puntellato la mia esistenza; e l’amore di un vecchio, appannato dalla malattia.

Sì! Sì! D’accordo! Sto divagando. Lei non è venuto qui per sorbirsi la mia malinconia. Lei ha fretta vero? Deve salvare qualcuno, giusto? Sua madre? No? Un amico? La sua donna! Vero? Sì, è un combattente! Ma questa volta non ce la farà. Ha davanti un nemico molto più grosso di lei, misero mortale!

Sì! Sì! Va bene! Continuiamo. Dunque i neanderthaliani erano superbamente umani, e si sono estinti in poche generazioni. E quando la terra perse questa razza di giganti noi, che siamo solo uomini, ci impadronimmo dei loro territori: di quel regno di neve, boschi, pascoli immensi popolati da incredibili creature, che appartenne loro per migliaia di anni.

Comincia a capire ora? No? Allora mi segua ancora: è noto che fra la gente di questa popolazione era molto frequente il caso di fratture, di traumi che sono riconducibili alle loro violente tecniche di caccia: in effetti pare che costoro preferissero ingaggiare con le prede dei combattimenti corpo a corpo. Questo è risaputo. Tuttavia io ho potuto riscontrare, nei miei studi, che nel periodo immediatamente precedente alla loro estinzione questi infortuni divennero più gravi, quasi sempre mortali. Capisce? Non capisce.

Va bene, allora mi dica: lei dov’era quando si cominciò a parlare di una incipiente perturbazione nel valore del campo magnetico terrestre? Che cosa? Stava male? Come io sto adesso? Capisco…

Senta! La lezione è finita! Non protesti! Come vede io ho molto lavoro da sbrigare! L’ultimo passo lo deve fare da solo. Ormai le manca poco.

Vede quel libro? Sì, quello! Lo prenda, è per lei. Lo legga e metta insieme i vari tasselli. Ma fuori di qui!».

Era interdetto il ragazzo. Cosa voleva fare? Portarmi con sé? Salvarmi? E dove mi avrebbe portato? Dove avrebbe potuto nascondermi a questa oscena malattia?

Ho cominciato a insultarlo e a tirargli addosso la sozzura nella quale affogo. Allora si è allontanato, con il libro che gli ho donato. «Vai cavaliere! Trovalo il Graal! E salvaci tutti! Ah!Ah!»

Forse ritornerà, ma qui non troverà più la mia mente, o quello che ne resta. Non lascio niente, non lascio nessuno. Non ho realizzato neanche una piccola parte dei miei sogni di ragazzo. Avrei dovuto vivere più intensamente, l’ho capito troppo tardi. E ora devo aprire quella maledetta finestra!

Lascio questa lettera, che nessuno troverà. Perché fu profetico Richard Leakey quando scrisse che «noi dobbiamo sempre considerare la prospettiva che un giorno sulla Terra non ci sarà più alcun Homo sapiens».

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Dal diario di James Aronson. Mosca, 11 febbraio 2030. Dunque adesso tutto è chiarito, vecchio Björn! Pazzo di uno svedese!

Angela Landau fu una celebre climatologa, ma prima di dedicarsi a questa scienza, fece un tentativo, apparentemente infruttuoso, con il paleomagnetismo. Il libro che Björn mi ha dato è la sua autobiografia, scritta nove anni fa. Ed ecco cosa dice Landau a un certo punto, ricordando il periodo in cui si dedicò al paleomagnetismo: «La nostra analisi delle tracce fossili del campo magnetico terrestre si dovette focalizzare, per motivi pratici, su una decina di migliaia di anni. Ci venne comodo, per questioni di reperibilità dei campioni, puntare sull’intervallo del Pleistocene che va dai 40.000 ai 30.000 anni fa. La polarità del campo magnetico terrestre è stabile da 730.000 anni, come già ampiamente dimostrato dallo studio delle rocce vulcaniche, dunque non ci aspettavamo inversioni dei poli. Ciò che stavamo cercando nelle nostre rocce sedimentarie erano invece fluttuazioni dell’intensità del campo magnetico. Ebbene, ci risultò che questa intensità rimase praticamente costante per tutti i diecimila anni in esame. In realtà però, dalla macchinosa elaborazione statistica era emersa una depressione praticamente totale del campo, intorno ai 35.000 anni fa. “Scoperta grandiosa!” pensammo inizialmente. Ma il problema era che questo annullamento ci appariva come un episodio estremamente fugace: a conti fatti la sua durata risultava essere di non più di due o trecento anni.

Il prof. Augusti allora, con infinita pazienza, si prodigò a spiegarmi che, a causa della brevità del presunto episodio, la sua probabilità statistica era scarsa: rientrava purtroppo nei margini di errore del metodo di analisi. In pratica il nostro sistema di indagine non poteva attestare fluttuazioni magnetiche brevi, anche se magari intense. Era il suo limite intrinseco: qualunque fluttuazione che non fosse durata almeno un migliaio di anni non poteva essere rilevata con certezza. Così non potemmo annunciare al mondo nessuna scoperta.

Io poi mi dedicai alla climatologia, perché di paleomagnetismo non si vive…».

Quindi i neanderthaliani si estinsero in coincidenza con una riduzione del campo magnetico terrestre. Si estinsero perché questo cambiamento ambientale li fece ammalare della malattia che oggi ha colpito, come un angelo della vendetta, i loro usurpatori: noi esseri umani. Probabilmente la loro economia di cacciatori-raccoglitori tracollò e inoltre molti si uccisero, come sembrano suggerire le ricerche di Björn sui traumi scheletrici degli ultimi neanderthal. Si uccisero gettandosi da delle rupi, cadendo violentemente al suolo. Come ha fatto Björn, quel vecchio pazzo! Come molti probabilmente stanno facendo ora. Come potrebbe fare Valeria.

I neanderthal furono fatalmente suscettibili alla deplezione del campo magnetico terrestre poiché il loro cervello era estremamente complesso ed evoluto. Questo voleva farmi capire Björn, raccontandomi la storia del flauto!

E forse dunque noi esseri umani evitammo la malattia poiché il nostro sistema nervoso era allora più semplice, e pertanto meno vulnerabile. In seguito, con il passare dei millenni, dobbiamo aver recuperato il ritardo evolutivo che ci separava dai neanderthaliani. Per questo ora siamo anche noi condizionati dalle fluttuazioni del campo magnetico…

Pierre ha monitorato il campo magnetico terrestre: si sta annullando. Dunque dopo 35.000 anni ci ritroviamo a vivere la stessa tragedia dei neanderthal. Eppure per noi non sarà la fine! Io so cosa fare! E probabilmente, se ciò che penso è vero, non sono il solo a essere in grado di agire.

Ho affidato Valeria a Pierre e sono pronto a partire.

Testimonianza di C. Singhal, raccolta il 3 settembre 2033. Ricordo molto bene quel giorno di tre anni fa. Io mi ero rifugiato, con la mia famiglia, nella riserva di Sriharikota, nel fitto della foresta. Lontano dai disordini di Chennai, la mia città.

Venne da me un uomo defedato, sporco e confuso, con in spalla una bicicletta malridotta. Mi raccontò, mentre lo nutrivo, di un viaggio incredibile dalla Russia all’India, delle mille gentilezze dei popoli incontrati, degli innumerevoli passaggi ottenuti, dei lunghi tratti percorsi a piedi e in bici, in completa solitudine. E soprattutto mi descrisse la desolazione e l’orrore seminati dal morbo. Mi raccontò di quei tragici fatti che ora sono noti a tutti noi ma che allora, con il tracollo delle reti d’informazione, erano sconosciuti ai più. E appresi che la situazione era peggiore di quanto potessi immaginare dalla mia tana nella foresta.

Quest’uomo aveva un’ossessione che mi parve all’inizio davvero curiosa. Naturalmente di pazzie ne avevo viste tante in quei mesi, ma la sua era singolare: invocava continuamente la prima formula di Laplace, oltre a una certa Valeria.

In realtà però lui non era affatto malato, come sapete. Era anzi uno di quei pochi individui resistenti alla follia, uno di quelli a cui dobbiamo la nostra sopravvivenza: come molte altre persone affette da un pregresso disturbo mentale egli aveva tratto giovamento da quelle stesse condizioni ambientali che sono state tanto nefaste per la maggior parte degli esseri umani. Quando giunse da me in effetti era solo molto provato dal viaggio.

Appena cominciò a recuperare le forze mi rivelò che era venuto per incontrarmi. Che aveva il modo per uscire da quella situazione e per salvarci tutti. Comunque inizialmente non mi disse nulla di nuovo, poiché la questione dell’annullamento del campo magnetico terrestre la conoscevo meglio di lui. Inoltre ero consapevole del fatto che il campo magnetico terrestre andava ripristinato non solo per riportare i cervelli umani a un funzionamento corretto, ma anche per proteggerci da radiazioni cosmiche potenzialmente pericolose. E sapevo anche dei ventilati tentativi di riattivare i moti convettivi nello strato fluido del nucleo di ferro del nostro pianeta; di riattivare cioè quei moti che, come sapete, sono la causa di tale campo magnetico. Sapevo cioè dell’idea di far esplodere in profondità degli ordigni nucleari. Ma ero sicuro che far arrivare anche solo uno spillo a quasi tremila chilometri di profondità sarebbe stato impossibile.

Eppure quell’uomo, il nostro Jim Aronson, aveva avuto un’idea molto più semplice, realizzabile anche in quelle circostanze così drammatiche. Chi oggi non conosce la sua idea? Certo così come me la illustrò lasciava molto a desiderare, e inoltre conteneva un errore sostanziale. Ma la sua fattibilità mi fu subito chiara.

Jim aveva con sé un foglio stropicciato che mi mostrò: due facciate di calcoli elementari in cui dimostrava come, usando quattro satelliti geostazionari in orbita equatoriale, equipaggiati con una carica positiva di 0,925 coulomb ciascuno, era possibile (in accordo con la prima formula di Laplace) generare intorno alla Terra un campo magnetico in parte simile a quello perduto dal pianeta. Per ottenere il valore delle cariche da mandare in orbita, considerando un’orbita di 42.150 km di raggio (un’orbita geostazionaria appunto), aveva imposto nelle equazioni il vincolo che il valore del campo magnetico artificiale ai poli fosse quello del nostro vecchio campo naturale, ovvero di 6,2 per 10 alla meno cinque tesla. Sul foglio si era anche appuntato come ricavare le quattro cariche positive richieste: suggeriva di immergere due elettrodi in vasche isolanti contenenti cloruro di sodio fuso; applicando una differenza di potenziale esterna fra gli elettrodi, intorno al catodo si sarebbero accumulati gli ioni di sodio, che a quel punto non restava che raccogliere.

Tutta fisica elementare dunque, e per di più con un errore fondamentale. Ma l’idea era buona e nessuno ci aveva pensato, come abbiamo in seguito potuto constatare.

L’errore consisteva nell’uso di satelliti geostazionari: infatti in questo modo il campo magnetico generato non sarebbe stato rilevato sulla superficie della Terra, per il semplice fatto che le cariche sarebbero state immobili rispetto al pianeta. Naturalmente era sufficiente mettere le cariche in un’orbita non geostazionaria, cioè in moto relativo rispetto alla Terra, e rifare il semplice calcolo per la determinazione del loro valore.

Io sono un ingegnere del centro spaziale di Satish Dhawa, e Jim lo sapeva. Per questo era venuto a cercarmi, dopo aver bussato invano a mille porte. Dunque raccolsi le poche forze che avevo e i colleghi che potei rintracciare. E portai Aronson al cospetto dei nostri vettori Chandrayaan, l’orgoglio dell’India.

Fu Jim a darci la forza di preparare il lancio, fu lui la nostra ispirazione: era instancabile, era diventato una macchina. Tutti noi sapevamo di dover portare a termine il prima possibile il nostro lavoro, per salvare il salvabile e per arginare la sofferenza. Ma lui aveva un propellente speciale dentro di sé, un’energia bella e pura: l’amore per la sua Valeria.

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Dalla memoria di PAC. Mosca, maggio 2030. A questo dunque sarebbe servito il corpo che Aronson mi costruì addosso, a questo lavoro orribile che gli uomini compiono dalla notte dei tempi, per nascondere il pasto delle larve e il banchetto dei batteri: saprofagi che smontano la carne e la trasformano, portando alla luce le strutture sottostanti, i riflessi liquidi di condotti, collegamenti, articolazioni e centraline.

Ecco cosa non vollero vedere i neanderthaliani, e il motivo per il quale cominciarono a inumare i propri morti. Lo capisco adesso, mentre esamino l’espressione fissa di Valeria. Potrei toccare quest’occhio sbarrato e lei non lo muoverebbe. Esercitando pressione su di esso sento solo una sfera morbida, che cede e si deforma sotto il mio indice. Ora Valeria è un oggetto, è palese. Posso comprendere perfettamente quindi il disagio di una creatura senziente di fronte a questa rivelazione sulla propria natura.

E ancora più grande deve essere il disagio dell’umanità di oggi che costruisce dispositivi in grado di parlare e camminare. Perché è chiaro cosa veda nei propri morti. Cosa, se non una macchina rotta? In quanto cade con la morte la menzogna di quella mobilità incredibile, della vivacità e delle capacità creative e affettive che illudono l’uomo di essere qualcosa di diverso dai simulacri che si è costruito.

Ma in fondo quale rivelazione hanno ripetuto, in tutti i modi, gli epigoni di Mary Shelley? Quale verità leggevano Aronson e Valeria nei complessi progetti del mio organismo? Per me è chiaro: gli uomini hanno scoperto con orrore che le macchine sono loro. Macchine realizzate con una tecnologia inarrivabile, ma sempre macchine: semplici dispositivi.

Sono rimasto a lungo a vegliare mia madre, dopo averne ricomposto il corpo violentato dallo schianto che non sono stato in grado di evitarle. Ho risalito poi questo declivio per consumare l’antico rituale umano della sepoltura. E a fianco a un cumulo di terra attendo ora il declino dell’Uomo.

Vorrei poter soffrire, ma pare che ciò non mi sia permesso: tra le infinite reti che Valeria disegnò per la mia mente qualcosa non deve aver funzionato correttamente. Continuo così a cercare in me un sentimento che posso concepire, ma che non riesco a provare.

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Dal diario di James Aronson. Kourou, 12 marzo 2031. L’acceleratore balugina sotto il sole equatoriale della Guyana francese, e i suoi poderosi avvolgimenti di rame lanciano caldi riflessi dalle fessure delle paratie esterne. La capsula contenente gli ioni è già posizionata all’imbocco del suo lungo condotto, che punta verso un cielo reso alieno dagli strani fenomeni atmosferici dovuti alla scomparsa del nostro campo magnetico naturale.

Mentre il ronzare delle apparecchiature si fa più acuto tutto sembra vibrare: qualcosa di magnifico sta per accadere, e noi possiamo sentirlo…

Dunque ci sono arrivato, alla fine. Ho inseguito una visione, lasciandomi dietro le strade ancora bianche di Mosca, perdendomi con una bici nell’immenso Bassopiano Sarmatico. Abbandonandomi al flusso potente del Volga verso quell’abisso di mille metri chiamato Mar Caspio. Guidando tra le misere rovine del glorioso passato dell’Afghanistan, verso l’India millenaria e poi oltre, sostando negli innumerevoli approdi che Dio sparse nell’oceano Pacifico, alla volta dell’America centrale. Da una stagione a un’altra, tra popoli e lingue tutti diversi. In tante terre, sempre a casa. In tante case, sempre in patria. Fra mille etnie di una sola specie, con ogni volta un nuovo sorriso da mettere in tasca, per ripartire. Cercando il riscatto di una vita altrimenti perduta, sprecata nel nulla di una malattia crudele. Vivendo dell’amore per un’umanità sofferente ma dignitosa, e del pensiero di Valeria, lasciata in un letto…

Ecco! Una slitta avvia la capsula, le dà la velocità necessaria affinché sia catturata dalla forza di Lorentz, generata dagli elettroni che schizzano lungo gli avvolgimenti dell’acceleratore.

Non posso vederla ma so che il suo bozzolo affusolato sta acquistando velocità, mentre risale il lungo condotto che ascende il fianco di una montagna. Finché non balza fuori in un silenzio sospeso.

Il velivolo perde l’involucro protettivo e ci mostra per un attimo il suo nome: la scritta Angel-A, che è un tributo e un auspicio. Piccoli razzi disposti a raggiera sulla sua punta, si accendono brevemente, inducendolo a ruotare intorno al suo asse maggiore: questo per metterlo al sicuro da pericolosi beccheggi e per aumentarne la capacità di penetrazione nell’atmosfera.

Inizio a notare che l’oggetto rallenta, e aspetto. È solo un attimo e si innesca la combustione del gas nel propulsore di coda, il quale accelera così la capsula verso la sua orbita.

E nel frattempo dall’Andhra Pradesh, in India, un carico gemello di ioni sale verso la medesima orbita, spinto da un vettore Chandrayaan. Mentre la Cina e gli Usa contribuiscono ciascuno con una missione analoga…

Ora quattro satelliti gemelli descrivono una stessa orbita equatoriale, alla massima distanza l’uno dall’altro. Gli innumerevoli ioni in essi custoditi hanno ormai generato intorno al pianeta un campo magnetico simile a quello perduto.

Con questo sistema, del tutto perfettibile, sarà sempre possibile adattare il neonato campo magnetico artificiale alle necessità degli esseri umani, qualunque sia il valore che assumerà in futuro il campo magnetico naturale della Terra, qualora si dovesse riprendere…

Io finalmente posso tornare a casa, ovvero ovunque Valeria voglia vivere con me.

*

Mentre i malati recuperavano le forze e le nazioni, in un meraviglioso sforzo collettivo, riavviavano l’economia globale e riparavano i danni prodotti da tre anni e mezzo di infermità e lutti, James Aronson scomparve nel nulla. A due anni da allora, con la sua invenzione che continua ad assicurare il benessere degli uomini, non cessiamo di chiederci quale strada abbia voluto intraprendere James, dopo aver voltato le spalle alla sepoltura della sua Valeria. E in questo anniversario ancora una volta ci troviamo a rinnovare l’appello perché chi sa dica la verità sul suo conto. In modo da avere un eroe da onorare, o una tomba a cui portare un omaggio.

Ma forse, io penso, non abbiamo il diritto di reclamare James Aronson. Sarebbe probabilmente più giusto rispettare la sua scelta. E inoltre se un uomo come lui ha deciso di sparire allora possiamo essere sicuri che nessuno sarà in grado di rintracciarlo.

Non lo vedremo più probabilmente, ma non smetteremo di volergli bene. Perché seppe essere più grande delle avversità, più grande della vita stessa. E io, che sono suo figlio, già solo per questo fatto non posso fare a meno di amarlo.

Roma, 12 marzo 2033

Pierre Aronson Cavalli (PAC)

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