“Non sum qui fuerim; perit pars maxima nostri”
Massimiano, Elegiae, I, 1
Non ho la mia età, lo sai. Ma non perché abbia vissuto meno degli anni sui documenti: la verità è che gli anni li ho tutti, tutti quelli della Storia.
Vestivo la musica con le ossa cave, nei Balcani: intagliavo le asole ai femori d’orso, cercando le note che vibrano dentro le note, d’istinto pesando le perle della serie trigonometrica di quel Jean Baptiste che mi sarebbe stato benevolo commilitone, sotto Napoleone, cinquecentocinquanta secoli dopo. Tutta la Terra era un bosco, che si diceva nero e infinito, come lo spazio per voi; i mari, galassie. Migravamo da costa a costa, inventando i monologhi dei miei flauti, e spesso era foresta per vite intere. Le colonne d’aria che avevo imparato ad ammaestrare coprivano i conati coraggiosi delle prossime puerpere e tacevano ai vagiti, piangevano quando nessuno danzava più, ci facevano incrociare in quella solitudine senza nomi, illuminavano la notte delle conifere come una torcia nell’universo. Cantavano la felicità che vi ha generati.
Ad Ur fui fabbro dei Caldei e poi, generazioni seguenti, e con un altro nome, sacerdote. Era una città piena di sole che abbacinava, dove le divinità ungulate emulavano i simulacri speculari, assorti nelle loro sfilate sul candore dei muri. Ho detto città, ma per noi allora quella parola significava solo l’ambizione ingenua di inquadrare l’universo in qualche decina di strade, templi, granai, e uffici. Da loro coltivai l’arte nuova della scrittura.
Cinquecento anni dopo, mezzo millennio di solite meraviglie e di dolori sempre diversi, fui in Egitto, a raccogliere esempi del teorema di Pitagora: gli egizi non concepivano dimostrazioni generali, Euclide doveva ancora nascere e io sarei stato poi illuminato e distrutto dall’ingegno superiore della sua vita breve. I figli di Rha erano collezionisti di casi particolari di ogni enunciato, e così, con un singolo teorema, si garantivano scoperte per l’eternità. Lì fui scriba e architetto, di nome in nome, poi scultore, con l’amico Thutmose.
Fu sotto lo sguardo indifferente e lontano del dio lupo, mezzo uomo, che vidi Asmara la prima volta, tra tutta quella umanità che si spostava come la polvere che diventa stelle nel raggio di una finestra, come i girini che si rincorrono nel gioco infantile. Era un giorno di mercato, un mercato d’oriente, commercio dei colori delle cose inutili, così fondamentali per vivere; di gioie e drammi, di uomini che svendono la loro miseria; di esercizi di astuzia, di cose da grandi che volano sopra la testa dei piccoli tenuti per mano; di ammiccamenti che ti farebbero parlare a lungo, se dovessi spiegare, di falsi ingegnosi e originali. E quel giorno, che è un punto di una successione infinita di gesti distratti e prosaico quotidiano, mi è presente più degli altri, anche ora. Anche allora, quando modellai la carne, sul cuore di calcite sedimentata per tutta la mia vita, del volto di Nefertiti, Nefertiti fu Asmara che Asmara non era già più. Odiai quel busto e non lo finii, perché amai l’originale. Eppure, tremila anni dopo, percorsi l’Europa in fiamme, fino al centro dell’inferno, per salvarlo dalla distruzione di Berlino.
Gli dèi nascono e poi diventano paura in frantumi, dimenticati nella sabbia come Anubi, si avvicendano; ma se Pitagora offrì all’eternità l’incastro durevole della ipotenusa coi cateti, io porterò Asmara – morta e dispersa da millenni – riflessa come allora su queste iridi di conifere e terra, per sempre.