Babesiosi

Babesiosi

La babesiosi umana è causata da protozoi del genere Babesia che vivono negli eritrociti. In Europa la babesiosi è trasmessa principalmente da Ixodes ricinus, la stessa zecca che trasmette la malattia di Lyme. E’ teoricamente possibile la trasmissione attraverso trasfusioni. Secondo alcuni studi la contemporanea trasmissione di Babesia e Borrelia rende peggiore e più lungo il decorso della malattia di Lyme. I sintomi della babesioisi sono sintomi influenzali, mialgie, disturbi gastro-intestinali  (Stinco G. et Bergamo S. 2016). Le principali specie patogene in Europa sono Babesia divergens, B. venatorum, B. microti (ECDC). I test per Babesia possono essere eseguiti nei centri indicati qui di seguito.

  • Esame diretto presso il Policlinico San Matteo, Pavia. Si tratta dell’esame al microscopio dello “striscio” di sangue. Questo test permette la diagnosi nella fase acuta della infezione.
  • Ricerca del DNA presso l’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, Verona. Purtroppo questo esame è disponibile solo per la specie B. microti. Non è nota la cross-reattività per le altre specie europee, ma non è da escludere.
  • Sierologia presso l’Azienda Ospedaliera di Padova. La sierologia viene eseguita solo per la specie B. microti. Non è nota la cross-reattività per le altre specie europee, ma non è da escludere.
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Esame del liquor nella malattia di Lyme

Esame del liquor nella malattia di Lyme

Sierologia su liquido cerebrospinale

Nei pazienti in cui si sospetti la possibilità che il batterio abbia raggiunto il sistema nervoso centrale, si può ricorrere all’analisi del liquido cerebrospinale (CSF). Infatti, la rilevazione di una produzione intratecale di anticorpi specifici contro B. burgdorferi sl dimostra un coinvolgimento, presente o passato, del sistema nervoso centrale e può fornire la base per la diagnosi di neuroborreliosi (1). La produzione intratecale può essere dimostrata prelevando contemporaneamente il siero e il liquido cerebrospinale e diluendoli finché non presentino la medesima concentrazione di IgG. Quindi si procede alla ricerca di anticorpi specifici per B. burgdorferi sl in entrambi i campioni e infine si calcola il rapporto tra i valori ottenuti su liquor e quelli ottenuti su siero, ricavando l’indice CSF/siero. Se questo indice è >1.3, allora la produzione intratecale è dimostrata (2). Questo tipo di analisi può essere discriminante in alcune circostanze, infatti sono stati descritti casi di Lyme in cui si ha produzione intratecale di anticorpi, in pazienti sieronegativi (3). La rilevazione di IgG intratecali ha una sensibilità dall’80 al 100% nella neuroborreliosi. Nei bambini con neuroborreliosi precoce, la produzione intratecale di IgM specifiche per B. burgdorferi sl ha anch’essa una elevata specificità (4). La produzione di anticorpi intratecali sembra associata con maggiore frequenza alla infezione da B. garinii (5) ed è infatti un riscontro raro negli Stati Uniti. Una falsa positività nella produzione intratecale delle IgM è stata riportata nel caso di meningite da Epstein-Barr virus (6).

Parametri infiammatori del liquido cerebrospinale

Nella neuroborreliosi europea si riscontra tipicamente una elevata conta leucocitaria nel liquido cerebrospinale, dell’ordine di 10-1000 leucociti/ml. L’elevazione dei leucociti è dovuta principalmente a un aumento di linfociti in generale e di cellule B del plasma, in particolare (6). Nella neuroborreliosi si riscontra altresì un aumento delle proteine nel liquido cerebrospinale e la presenza di bande oligoclonali (6), dove entrambi i parametri sono marcatori di infiammazione del sistema nervoso centrale. La presenza di bande oligoclonali nel liquido cerebrospinale indica la produzione intratecale di immunoglobuline della classe IgG, che non sono presenti nel siero. Le bande oligoclonali non sono specifiche della neuroborreliosi di Lyme, essendo presenti anche in altre patologie neuroimmuni. Si consideri infatti che il 90% di pazienti affetti da sclerosi multipla è positiva al test delle bande oligoclonali (7).


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Riferimenti

  1. Wilske, B, Fingerle, V e Schulte-Spechtel, U. Microbiological and serological diagnosis of Lyme borreliosis. FEMS Immunol Med Microbiol. Feb 2007, Vol. 49, 1, p. 13-21.
  2. Wilske, B, et al. Intrathecal production of specific antibodies against Borrelia burgdorferi in patients with lymphocytic meningoradiculitis (Bannwarth’s syndrome). J Infect Dis. Feb 1986, Vol. 153, 2.
  3. Wilske, B, Zoller, L e Brade, V. MIQ 12 Lyme-borreliose. [aut. libro] H Mauch e R Luticken. Qualitätsstandards in der mikrobiologisch-infektiologischen Diagnostik. Verlag : Munich: Urban&Fischer, 2000.
  4. Hansen, K e Lebech, AM. Lyme neuroborreliosis: a new sensitive diagnostic assay for intrathecal synthesis of Borrelia burgdorferi–specific immunoglobulin G, A, and M. Ann Neurol. 1991, Vol. 30, 2.
  5. Ruzić-Sabljić, E, et al. Analysis of Borrelia burgdorferi sensu lato isolated from cerebrospinal fluid. APMIS. 2001, Vol. 109, 10.
  6. Mygland, A, et al. EFNS guidelines on the diagnosis and management of European Lyme neuroborreliosis. European Journal of Neurology. 2010, Vol. 17, p. 8,16.
  7. Johns, Paul. Clinical Neuroscience. s.l. : Elsevier, 2014.

 

Storia della malattia di Lyme

Storia della malattia di Lyme

Storia negli USA

Nel 1981 Willy Burgdorfer, uno studioso di entomologia medica che lavorava presso i Rocky Mountain Laboratories (Montana), rinvenne una nuova specie di spirocheta nell’intestino di zecche della specie Ixodes scapularis, raccolte a Long Island (New York) (Trevisan G in R). La stessa specie di aracnide era stata oggetto, pochi anni prima, dell’interesse da parte di un gruppo di ricercatori impegnati nello studio di una forma epidemica di artrite in tre piccoli comuni sulla riva est del fiume Connecticut, immediatamente a nord di Long Island (vedi Figura 1).

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Figura 1. Il villaggio di Lyme si trova sulla riva est del fiume Connecticut, immediatamente a nord di Long Island, il luogo in cui furono raccolti gli esemplari di Ixodes scapularis nei cui intestini Willy Burgdorfer rinvenne i primi esemplari conosciuti di B. burgdorferi.

L’artrite colpiva prevalentemente i bambini, con un picco di incidenza in estate e nel primo autunno, era accompagnata da sintomi quali fatica, mialgia, febbre e mal di testa ed era spesso preceduta da una caratteristica lesione cutanea e dal morso di una zecca. In un articolo del 1977, Allan Steere e colleghi descrissero la patologia e la chiamarono “artrite di Lyme”, dal nome di uno dei tre paesini coinvolti nella epidemia (Steere AC et al. 1977), (Steere AC et al. 1977). L’insolita concentrazione di Ixodes scapularis nella cittadina di Lyme e dintorni, nonché il rinvenimento di un esemplare di questa specie su uno dei pazienti, indussero i ricercatori a ritenere che I. scapularis potesse in qualche modo causare la malattia, senza che fossero però in grado di dimostrare questa ipotesi (Steere AC et al. 1978), (Wallis RC et al. 1978). Quando Burgdorfer riconobbe una nuova spirocheta all’interno di I. scapularis, il sospetto che questo batterio potesse essere l’agente eziologico della malattia di Lyme dovette sorgere naturale. E fui lui a dimostrare la fondatezza di questa ipotesi, rilevando che il siero di un paziente conteneva anticorpi contro il batterio (Burgdorfer W et al. 1982). Il batterio (vedi Figura 2 e Figura 4) prese il nome di Borrelia burgdorferi, in suo onore.

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Figura 2. Esemplare tipo di Borrelia burgdorferi, da (Goldstein SF et al. 1996) con modifiche (disegno di Paolo Maccallini).

In Europa

Una storia analoga era stata già scritta in Europa a partire dal 1909, quando Arvid Afzelius dimostrò che il morso della zecca Ixodes ricinus (vedi Figura 3) poteva dar luogo a una lesione cutanea caratteristica, che chiamò Erithema chronicum mygrans (ECM). L’ECM era già stato associato a una condizione degenerativa della pelle, l’acrodermatitis chronica atrophicans (ACA) da Karl Herxeimer, fra gli altri, nel 1902. In seguito l’eritema migrante da morso da zecca fu descritto come prodromo di manifestazioni neurologiche (meningite linfocitaria e meningo-radiculo-neurite) da Charles Garin nel 1920 e da Alfred Bennwarth nel 1940, tra gli altri (Trevisan G in R).

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Figura 3. Vista dorsale di femmina adulta di Ixodes ricinus, da (Gilbert L et al. 2014) con modifiche (disegno di Paolo Maccallini).

In Italia

In Italia i primi casi di malattia di Lyme dimostrata da una sierologia positiva per B. burgdorferi furono descritti da Franco Crovato (1985) e da Giusto Trevisan (1986) e provenivano dalla costa ligure e dal carso triestino (Trevisan G et al. 1987). In particolare, il primo caso in assoluto fu descritto in Liguria da F. Crovato nel 1985. Si trattava di una donna di mezza età, che lavorava come contadina nei dintorni di Genova. Il soggetto si presentò dal medico nel luglio del 1983, con due lesioni cutanee – lisce e senza bordi – caratterizzate da una macchia centrale rossa, circondata da un anello dello stesso colore (Erythema Chronicum Migrans). Alcuni giorni dopo, la donna cominciò a soffrire di malessere, febbre, rigidità nucale e dolore in corrispondenza delle lesioni cutanee. Un ciclo di tetracicline fu quindi somministrato dal medico di base, il quale tuttavia non riconobbe il tipo di infezione. In agosto le macchie scomparvero e si manifestarono dolori articolari in corrispondenza del bacino e delle ginocchia. A settembre furono rilevati nel sangue della donna gli anticorpi IgG contro Borrelia burgdorferi sl (Crovato F et al. 1985). Sempre a Trieste si riuscì a isolare il primo esemplare italiano di B. burgdorferi sl da Ixodes ricinus (1987) (Cinco M et al. 1989) e il primo esemplare dalla cute di una persona affetta (1988), ad opera di Marina Cinco e Giusto Trevisan (Cinco M et al. 1992). Nel 1999 gli stessi autori isolarono a Trieste la prima Borrelia afzelii da un paziente con acrodermatite cronica atrofica (Trevisan G in R). Nel 2004 il gruppo di Trieste potè dimostrare che anche nei pazienti con eritema migrante (Lyme precoce) il materiale genetico di B. burgdorferi è presente tanto nel sangue periferico che nelle urine, suggerendo che il batterio è in grado di disseminarsi nell’ospite già durante le prime settimane dal morso (Pauluzzi P. et al. 2004).

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Figura 4. Principali caratteristiche anatomiche del Phylum delle Spirochaetes. La membrana esterna avvolge i flagelli periplasmatici, a cui si deve la grande mobilità di questi batteri, sia nei fluidi che nei tessuti solidi. I flagelli si avvolgono a loro volta intorno allo strato peptidoglicano, una struttura a cui compete la funzione di sostegno meccanico della parete cellulare. Sotto di esso si trova la membrana interna, che avvolge il citoplasma. Tra la membrana esterna e la membrana interna si trova lo spazio periplasmatico. Tutto ciò che è avvolto dallo strato peptidoglicano è detto cilindro protoplasmatico. Da (Russel J, Medical Microbiology, 1996) con modifiche (disegno di Paolo Maccallini).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bartonellosi

Bartonellosi

La versione in inglese di questo articolo è disponibile qui.

Introduzione

Una decina delle 21 specie di batteri appartenenti al genere Bartonella sono potenzialmente in grado di generare infezioni sintomatiche negli esseri umani, con manifestazioni che possono avere gravità variabile: da malattie che si risolvono spontaneamente a condizioni che mettono a repentaglio la vita del paziente. Anche la durata può variare, da infezioni acute di qualche giorno a infezioni croniche (Mogollon-Pasapera E et al. 2009).

Malattia da graffio del gatto e altre manifestazioni

La più nota di queste patologie è forse la “malattia da graffio del gatto” (cat-scratch diesease) dovuta a Bartonella henselae e trasmessa agli uomini dai gatti, attraverso morsi o graffi. La trasmissione da gatto a gatto avviene attraverso le pulci (Ctenocephalides felis) e il 50% dei gatti domestici è portatore sano di questo patogeno (Massei F et al. 2005). In genere la malattia da graffio del gatto si limita ad avere una manifestazione locale e si risolve da sola; in altri casi può avere manifestazioni sistemiche quali febbre, mal di testa, fatica, e perdita di appetito. Il trattamento – se richiesto – può andare da 5 giorni di azitromicina per le forme lievi, a una combinazione di doxiciclina (o eritromicina) e rifampicina per 1-2 mesi, per le forme neurologiche (Klotz SA et al. 2011). Una rassegna delle principali malattie umane associate a Bartonella, delle vie di trasmissione, e delle terapie antibiotiche raccomandate si trova in Tabella 1 (Mogollon-Pasapera E et al. 2009).  Come si vede, in funzione della specie di Bartonella coinvolta, le manifestazioni cliniche possono comprendere retiniti, endocarditi, angiomatosi (proliferazione vascolare), la malattia di Carrion (febbre, anemia, ittero), adenopatia, e la febbre quintana (trench fever, febbre alta con mialgie, mal di testa, fatica).

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Tabella 1. Malattie umane associate a varie specie di Bartonella, terapie e vie di trasmissione.

Bartonellosi o borreliosi?

Un recente studio francese ha delineto la possibilità che una malattia cronica caratterizzata da fatica e mialgia, con o senza mal di testa, sia dovuta a una infezione da Bartonella (soprattutto da B. henselae) e sia trasmessa da zecche (Vayssier-Taussat M et al. 2016). Lo studio ha considerato 66 persone che avevano riportato la comparsa di sintomi cronici a seguito di un morso di zecca; i pazienti erano accomunati dal fatto di essere sieronegativi per Borrelia burgdorferi. Il loro sangue è stato sottoposto a coltura per 45 giorni su terreno arricchito da sangue di pecora. Sei dei 66 campioni hanno visto la formazione di colonie batteriche ascrivibili al genere Bartonella: in tre casi si è potuto identificare materiale genetico di B. henselae, negli altri 3 di altre tre specie di Bartonella (Tabella 2). Lo stesso test condotto sul sangue di 70 donatori sani è risultato negativo in ogni campione. Questo studio suggerisce (ma non dimostra) che sintomi aspecifici come fatica e mialgia, a seguito di morso di zecca, possano essere dovuti a una infezione da Bartonella (in particolare B. henselae) piuttosto che essere espressione della malattia di Lyme. Anche Richard Horowitz ha segnalato la possibilità che pazienti con manifestazioni atipiche della malattia di Lyme siano portatori di una infezione da Bartonella, da trattare con cure specifiche (tetraciclina, idrossiclorochina e quinolonico) (Horowitz R, 2014). La presenza di Bartonella henselae nello stomaco di Ixodes ricinus (il vettore della malattia di Lyme in Europa) è stata recentemente riportata in Francia, Portogallo e Germania (Dietrich F et al 2010), ma non in Italia (Mancini F et al. 2014).

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Tabella 2. I sei pazienti francesi positivi per Bartonella e sieronegativi per Borrelia, con sintomi cronici a seguito di morso di zecca.

In accordo con lo studio francese e le osservazioni di Horowitz, recentemente un articolo proveniente dall’Open Medicine Institute ha segnalato un caso di malattia di Lyme (eritema migrante) refrattario ai trattamenti, caratterizzato da fatica, mal di testa e difficoltà a mantenere l’equilibrio, in cui una coltura su sangue ha evidenziato la presenza di Bartonella henselae. Un trattamento con rifampicina e claritromicina per 5 mesi ha risolto la sintomatologia. Gli autori dello studio hanno sottolineato come la sierologia del paziente per Bartonella fosse negativa, e solo la coltura cellulare di 21 giorni eseguita dal laboratorio Galaxy Diagnostics sia stata in grado di rilevare la infezione da B. henselae (Kauffman DL et al. 2017).

Conclusione

La bartonellosi potrebbe aggiungersi alle infezioni trasmesse dal morso di zecca, sebbene non si abbia ancora la certezza di questo. La malattia si manifesterebbe con sintomi aspecifici quali fatica, mialgie, mal di testa. Non risponderebbe alle cure normalmente utilizzate per Borrelia burgdorferi e quindi potrebbe rendere conto di almeno alcuni dei casi di ‘Lyme cronica’, ovvero di quella condizione refrattaria ai trattamenti, verso cui evolve il 10-20% dei casi di malattia di Lyme.

Nota. Presso l’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma si effettua la PCR per Bartonella spp. su tampone oculare; il tampone, una volta effettuato, deve essere inserito in 1 cc di soluzione fisiologica. Può essere mantenuto a +4-8° prima di essere inviato in laboratorio. Le specie che possono essere identificate con quest’analisi sono le seguenti: B. henselae, B. quintana, B. bacilliformis, B. clarridgeiae, B. elizabethae, B. vinsoni. Non mi è nota la sensibilità di questa procedura diagnostica nei vari tipi di bartonelliosi. La specificità della PCR è in genere molto alta (prossima al 100%).


 

 

Il cavallo marino e l’energia

Il cavallo marino e l’energia

Le misure metaboliche in vitro dello studio norvegese  in cui fu evidenziato un possibile blocco al livello del piruvato deidrogenasi nei pazienti ME/CFS, sono state effettuate con il dispositivo Seahorse XFe96 della Agilent. Questo apparecchio (grande come una stampante da tavolo) permette di misurare in tempo reale – in vitro – il metabolismo energetico di cellule prelevate da pazienti (ad esempio linfociti). Come è spiegato nel video che segue, il tutto si riduce a due misure:

  1. una misura del consumo di ossigeno, che fornisce una stima del funzionamento mitocondriale;
  2. una misura della concentrazione di protoni, che fornisce una stima del funzionamento della glicolisi.

Mi risulta che l’Università degli Studi di Firenze sia in possesso di questo apparecchio (vedi qui).

Il Seahorse è attualmente impiegato nello studio di Avindra Nath (NIH) su 40 pazienti con ME/CFS post-infettiva (PI-ME/CFS). Come gruppo di controllo per questa ricerca, oltre a 20 persone sane, sono state selezionate anche 20 persone che hanno avuto la Lyme e sono completamente guarite.

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Western blot per malattia di Lyme

Western blot per malattia di Lyme
  • L’immunoblot (o western blot) è una procedura che consente di determinare contemporaneamente la presenza, nel sangue analizzato, di anticorpi contro più antigeni del patogeno. Una rassegna di questi antigeni si trova qui. Gli antigeni sono disposti su un supporto, divisi in fasce trasversali (dette bande) contigue ma separate, mentre l’esecuzione del test non è dissimile da quella descritta per il test ELISA. In Figura 1 e in Figura 2 sono rappresentati i supporti (IgM e IgG, rispettivamente) per un western blot attualmente in commercio in Europa (Euroimmun).
IB IgM
Figura 1. Rappresentazione di un western blot europeo per IgM. Disegno di Paolo Maccallini.
IB IgG
Figura 2. Rappresentazione di un western blot europeo per IgG. Disegno di Paolo Maccallini.

Affinché un western blot (in IgM o in IgG) sia considerato positivo, non è necessario che tutte le bande lo siano, sono sufficienti solo alcune bande positive. Il numero e il tipo di bande positive affinché un western blot sia positivo è stato determinato con considerazioni statistiche in modo da garantire la massima specificità del test, determinando dei criteri validi per l’area europea. Tali criteri sono riportati in Tabella 1, dove sono posti a confronto con i criteri adottati negli Stati Uniti (CDC, 1995). Come si vede i criteri europei richiedono la positività a un minor numero di bande, essendo la risposta immunologica dei pazienti affetti da borrelia europea ristretta a un numero inferiore di proteine di superficie (Wilske B et al. 2007). In Tabella 2 e Tabella 3 sono riportate sensibilità e specificità per un western blot tedesco attualmente in uso, interpretato con criteri europei (Branda JA et al. 2013). Nella prima tabella le IgM e le IgG sono considerate separatamente, mentre nella seconda si considera un test positivo se positivo in almeno una delle due classi di anticorpi. Dalla Tabella 3 si può notare come, ad esempio, un western blot negativo sia un falso negativo nel 13% di casi neuroborreliosi, così come un test positivo sarà un falso positivo nel 9% di casi di neuroborreliosi o artrite di Lyme.

criteri IB
Tabella 1. Criteri per l’interpretazione del western blot in Europa e in USA. Tabella di Paolo Maccallini.
sensibilità specificità 1
Tabella 2. Sono riportati sensibilità e specificità per un western blot europeo. EM sta per eritema migrante, NB per neuroborreliosi, ACA per acrodermatite cronica atrofica. IgG e IgM sono considerate separatamente. Tabella di Paolo Maccallini.
sensibilità specificità 2
Tabella 3. Sono riportati sensibilità e specificità per un western blot europeo. EM sta per eritema migrante, NB per neuroborreliosi, ACA per acrodermatite cronica atrofica. IgG e IgM sono considerate insieme. Tabella di Paolo Maccallini.

Reclutamento pazienti Lyme

Reclutamento pazienti Lyme

Mi è stata segnalata una iniziativa – di cui non so molto per la verità – ma che sembra interessante e potenzialmente utile. Per questo riporto qui – così come mi è stato girato – il seguente messaggio, rivolto a tutti i pazienti a cui sia stato assegnato il codice di esenzione per patologia RA0030, associato alla Malattia di Lyme. Per ulteriori informazioni ci si rivolga a Laly Reghenzani (+39 3400549577).

!! AAA – RA0030 – AAA !!

E’ stato creato attorno a questa patologia, la Malattia di Lyme, un nuovo gruppo di ricerca scientifica: si cercano pertanto pazienti con certificazione statale di tale infermità per dare vita, tramite loro, a un database su sintomi, terapie ed esami effettuati. Professori universitari di varie discipline e istituti offriranno il loro contributo professionale e visiteranno senza fini di lucro, per inquadrare il più possibile sintomi, diagnostica e terapizzazioni di questa malattia plurimorfa; l’obiettivo è quello di fissare approcci e metodiche nuove di intervento e assistenza, consulenza e terapizzazione di chi ne sia affetto.

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* Cercasi persone con Malattia di Lyme certificata RA0030 *
Aderisci o diffondi la notizia a chi sai può esserne interessato.
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Questo è il punto di partenza di un progetto inedito per l’Italia, multisettoriale, e che si auspica possa conoscere nuovi percorsi di assistenza e tutela dei malati. Il focus di indagine sarà in una seconda fase ampliato anche a coloro che non possiedono una diagnosi acclarata di tale patologia. Più persone vorranno far parte già agli esordi di questo programma, più ampio e rapido sarà l’itinere di tale planning.

Fate pertanto avere avere a me, Stefano Richichi, o Laura (Laly Reghenzani) il vostro nome, indirizzo e recapiti vari: così  verrete contattati quanto prma per ricevere ulteriori dettagli. Le visite si cercherà di effettuarle raccorpate fra vari specialisti, per essere di minor incomodo a chi dovesse spostarsi per effettuarle.

Sia il benvenuto a chi è interessato, grazie dell’attenzione

Dapsone? Parliamone

Dapsone? Parliamone

Il dapsone, proposto recentemente come una terapia per le forme persistenti di Borrelia burgdorferi (Horowitz R et al. 2016), in realtà non risulta più efficace della cefuroxima o della doxiciclina, secondo degli esperimenti in vitro del gruppo di Zhang (Feng J et al. 2017) (vedi tabella sotto). Quindi non esisterebbe un vantaggio nell’uso del dapsone al posto dei farmaci comunemente usati nella malattia di Lyme da alcuni decenni, ovvero doxiciclina e cefalosporine. Bisogna dire però che si sta parlando di studi in vitro.

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Come accennato sopra, Horowitz e colleghi hanno tuttavia riportato un beneficio in 100 pazienti cronici (post-treatment Lyme disease syndrome) trattati con dapsone associato a vari altri farmaci. Lo studio non è in doppio cieco e il trattamento non è lo stesso per ciascun paziente. Quindi è difficile trarre delle conclusioni sulla importanza del risultato. Inoltre il miglioramento sembra modesto: se consideriamo la fatica pre e post trattamento, ad esempio, si ha un miglioramento dell’11% nella scala adottata (vedi tabella sottostante). Sembrerebbe un effetto irrisorio, sovrapponibile forse ad un effetto placebo.

dapsone 2.png

Così, mentre le università di Stanford, John Hopkins, e Northeastern si affannano a cercare farmaci che possano superare il limite delle terapie attuali (vedi questo articolo ad esempio), Richard Horowitz propone come ultima frontiera delle cure anti-Borrelia un farmaco che non è più efficace di quelli in uso da alcuni decenni. E’ vero, Horowitz non ha dato fino ad ora nessun contributo significativo alla ricerca sulla malattia di Lyme, però lascia ai posteri una spassosa canzoncina su questo spietato male (vedi sotto). So che è la disperazione ad accecare le capacità di giudizio dei pazienti, che da tutto il mondo finiscono nello studio di Horowitz, e lo capisco. Quello che dispiace è che esista chi cerca di fare affari su questa disperazione.

Kim Lewis e il disulfiram

Il farmaco di cui parla Kim Lewis qui – senza volerlo norminare nonostante l’insistenza della intervistatrice – è con buona probabilità il disulfiram, sostanza di cui Kim Lewis ha parlato in altre circostanze. Chi avesse la pazienza di vedere il video, lo faccia. Proverò magari a sintetizzare (o sottotitolare il video) in seguito. Ma ho parlato di questa ricerca in questo articolo.

Da notare che chi – come Kim Lewis – si occupa della ricerca sui sintomi cronici della malattia di Lyme, ammette di non sapere a cosa siano dovuti; e conduce studi proprio per scoprirlo. Chi afferma in modo categorico di conoscere cosa sia la Lyme cronica, con quali test identificarla, e come curarla in genere deve vendere qualcosa.


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Anti-neuronal autoimmunity in Lyme disease

Anti-neuronal autoimmunity in Lyme disease

Introduction

Neurological sequelae of chronic Lyme disease include encephalopathy, myelopathy and peripheral neuropathy. These have generally been attributed to either persistent infection or pathogen-induced autoimmunity (IOM, Institute of Medicine, 2011).

Anti-HSP60 antibodies

In 1988, Sigal et al. found that sera from patients with neurological manifestations of Lyme disease had IgM antibodies that bound to normal human axons, whereas binding was absent or weak in patients without neurologic findings (Sigal, et al., 1988). In 1993, Dai et al. proved that a monoclonal antibody (H9724) specific for the 41-kDa flagellar protein of Borrelia burgdorferi, cross-reacted with human axons. The cross-reacting protein was identified as chaperonin-HSP60 (Dai, et al., 1993). It was also proven in the same year, that human sera from Lyme patients which bound to human axons, also bound to HSP60 (Sigal, 1993). In 2001, evidence was provided that addition of H9724 to neuroblastoma cell cultures blocks in vitro spontaneous and peptide growth-factor-stimulated neuritogenesis. It was reported that H9724 bound to an intracellular target in cultured cells with negligible, if any, surface binding (Sigal, et al., 2001).

Neuroborreliosis Garia-Monco et al, October 1995 (Garcia-Monco, et al., 1995)
Method Antigen Standard. Primary and secondary Ab Secondary antibody,

substrate

Results
ELISA

indirect

Gangliosides (CM, asialo-GM1, GM1) Rabit antisera to asialo-GM1 and GM1,

Horseradish peroxidase-conjugated anti-rabit Ig (polyvalent)

Horseradish peroxidase-conjugated anti-rat IgM Rats immunized with borrelia non-protein antigens showed sera reactivity against gangliosides, and rats immunized with gangliosides showed reactivity against borrelia antigens. Borrelia antigens elicited mainly an IgM response.
Horseradish peroxidase-conjugated anti-rat IgG

Anti-ganglioside antibodies

In European studies, a marked IgM reactivity to ganglioside GM1 in the cerebrospinal fluid of neuroborreliosis patients has been reported  (Weller, et al., 1992). In a 1993 study, 29% of patients with neuroborreliosis and 59% of patients with syphilis had IgM reactivity to gangliosides with a Gal (beta 1-3) GalNac terminal sequence (GM1, GD1b, and asialo-GM1). Given the clinical associations of patients with neuroborreliosis and syphilis with IgM reactivity to gangliosides sharing the Gal (beta 1-3) GalNac terminus, the authors suggested that these antibodies could represent a response to injury in neurological disease or a cross reactive event caused by spirochetes (García-Moncó, et al., 1993). In 1995, the molecular mimicry hypothesis was investigated by the same research group. They found that immunization of mice with nonprotein Borrelia burgdorferi antigens induced high levels of IgM antibodies to asialo-GM1 and GM1. Moreover, immunization with asialo-GM1 cross-reacted with antigenic determinants present in B. burgdorferi. These experimental results are consistent with the hypothesis of a microbial origin for some of these potentially autoreactive antibodies. This situation is analogous to the induction of antibodies to GM1 after infection with Campylobacter jejuni, where the origin of cross-reactivity has been attributed to the LPS of this bacterium, which carries sugar sequences similar or identical to those in ganglioside GM1. The predominance of IgM antibodies in rats immunized with nonprotein Borrelia burgdorferi antigens in the recognition of asialo-GM1 and GM1 suggests a T-cell-indipendent mechanism for development of these antibodies. This would be consistent with the T-cell-indipendent genesis of antibodies to LPS and to carbohydrates in general (Garcia-Monco, et al., 1995). In Table 1 I have reported some experimental settings for this study.

Anti-cardiolipine antibodies

Anti-cardiolipin antibodies may occur in patients with Lyme disease, particularly in those with neurologic abnormalities. The IgM serotype was found in 7/28 serum samples while the IgG serotype was found to be positive in 4/28 serum samples. Higher IgM anti-CA positivity tended to be associated with neurologic diseases (Mackworth-Young, et al., 1988). In another study, anti-CA antibodies of the IgG serotype were found in 50% of patients with neuroborreliosis (García-Moncó, et al., 1993). On anti-cardiolipin antibodies please see also this post.

Anti-neuronal antibodies

In 2005, antibodies against two of the OspA peptides were found to react with neurons in human brain, spinal cord and dorsal root ganglia (DRG) by immunohistochemistry (Alaedini, et al., 2005). In 2010 anti-neural antibodies reactivity was seen in serum specimens from 41 of 83 (49,4%) Lyme patients with chronic complaints, both seropositive and seronegative. Serum antibodies from those patients were found to be positive for anti-neuronal antibody reactivity by immunoblotting stained cortical pyramidal neurons, as well as neurons of DRG. Antibody binding to some glial cells of the brain and DRG was also observed (Chandra, et al., 2010). The same test was performed on 51 ME/CFS patients and no significant difference in the prevalence of anti-neuronal antibody reactivity was found, in comparison with healthy controls (Ajamian, et al., 2015). In a 2013 study, it was observed that nearly half of the patients enrolled, who had a history of Lyme disease and persistent cognitive symptoms, showed increased serum antibody reactivity to neuronal antigens (Jacek, et al., 2013).


 

Autoimmunità nella malattia di Lyme

Autoimmunità nella malattia di Lyme

Introduzione

Le sequele neurologiche della malattia di Lyme includono deficit cognitivi più o meno severi (che complessivamente prendono il nome di encefalopatia di Lyme) e varie forme di mielopatie e/o neuropatie periferiche. Nel complesso questi disturbi non rispondono alle cure antibiotiche attualmente in uso e non è chiaro se siano da attribuire a una persistenza dell’agente infettivo, a danni al tessuto nervoso, oppure a patologie immunitarie indotte dalla infezione (IOM, Institute of Medicine, 2011). In quello che segue propongo una mia revisione della letteratura (sicuramente incompleta) sulla autoimmunità nella malattia di Lyme.

La saga degli anticorpi anti-HSP60

Nel 1988, Sigal e colleghi trovarono che i sieri dei pazienti Lyme con sintomi neurologici presentavano IgM che si legavano ad assoni umani. Questo tipo di cross reattività era assente nel siero di pazienti Lyme privi di sintomi neurologici (Sigal, et al., 1988). Nel 1993, Dai et al. dimostrarono che un anticorpo monoclonale (H9724) specifico per la flagellina p-41 di Borrelia burgdorferi, cross-reagiva con assoni umani. In particolare, fu possibile identificare l’autoantigene che risultò essere la proteina HSP60 (Dai, et al., 1993). Nel medesimo anno fu verificato che il siero di pazienti con malattia di Lyme che cross-reagiva con gli assoni umani, si legava proprio alla proteina HSP60 (Sigal, 1993). Alcuni anni dopo, lo stesso gruppo di ricerca fu in grado di provare che l’anticorpo H9724 veniva di fatto internalizzato dalle cellule bersaglio, finendo per legarsi a un antigene intracellulare (Sigal, et al., 2001). Gli autori suggerirono che gli anti-HSP60 indotti dalla risposta immunitaria conto la flagellina p-41 – per mimetismo molecolare – abbiano un ruolo causale nella neuropatia periferica della malattia di Lyme.

Gli anti-gangliosidi

Nel liquido spinale di pazienti europei con neuroborreliosi è stata riportata una marcata risposta umorale contro il ganglioside GM1, tanto in IgM che in IgG (Weller, et al., 1992). In uno studio del 1993, il 29% dei pazienti con neuroborreliosi e il 59% dei pazienti con sifilide presentava una reattività in IgM contro i gangliosidi GM1, GD1b, e asialo-GM1. Questi autoanticorpi furono interpretati dagli autori o come una risposta a un danno del sistema nervoso prodotto dalla infezione, oppure come autoanticorpi prodotti per mimetismo molecolare a partire dalla risposta immunitaria sviluppata in origine contro l’agente patogeno (García-Moncó, et al., 1993). Nel 1995 lo stesso gruppo di ricerca fece un esperimento: indusse una risposta immunitaria contro antigeni non proteici di B. burgdorferi nei topi, e verificò che si sviluppavano IgM contro gli auto-antigeni asialo-GM1 e GM1. Viceversa, immunizzando i topi contro l’antigene asialo-GM1, induceva anticorpi contro B. burgdorferi. Questi risultati sperimentali furono interpretati come coerenti con una ipotesi di autoimmunità contro i gangliosidi indotta per mimetismo molecolare da antigeni non proteici di B. burgdorferi (Garcia-Monco, et al., 1995). Questa situazione è analoga a quella degli anticorpi anti-GM1 indotti da infezione da Campylobacter jejuni, dove l’origine della cross-reattività è stata ricondotta ai lipopolisaccaridi (LPS) del batterio, i quali presentano porzioni molecolari simili o identiche a quelle del ganglioside GM1. Si può osservare che la predominanza di anticorpi del tipo IgM suggerisce una loro sintesi indipendente dale cellule T, la qual cosa è del tutto coerente con il fatto che anticorpi contro antigeni non proteici sono spesso generati senza l’intervento delle cellule T. Gli anticorpi anti-gangliosidi sono comunemente associati a danni al sistema nervoso periferico.

Gli anti-cardiolipina

Anticorpi anti-cardiolipina sono stati riscontrati nei pazienti con malattia di Lyme, in particolar modo in quelli con problemi neurologici. In uno studio del 1988, 7/28 pazienti presentavano anti-cardiolipina del sierotipo IgM, mentre 4/28 presentavano anticorpi conto la cardiolipina del sierotipo IgG. I titoli più alti erano associati a sofferenze neurologiche maggiori (Mackworth-Young, et al., 1988). In un altro studio il 50% dei pazienti con neuroborreliosi presentava anticorpi del sierotipo IgG contro la cardiolipina (García-Moncó, et al., 1993). Gli anticorpi anti-cardiolipina reagiscono contro antigeni del sistema nervoso centrale (i fosfolipidi cefalina e sfingomielina) (Harris, EN, et al. 1984) e quindi – teoricamente – potrebbero essere legati causalmente ai disturbi cognitivi della encefalopatia di Lyme.

Gli anti-OspA e l’autoimmunità contro il cervello

Nel 2005, anticorpi contro la proteina di superficie A (OspA) di B. burgdorferi risultarono cross-reattivi con neuroni umani del cervello, del midollo spinale e dei gangli dorsali (Alaedini, et al., 2005). Nel 2010, anticorpi contro il sistema nervoso centrale furono rilevati in 41 su 83 (49,4%) pazienti Lyme con sintomi cronici, tanto sieropositivi che sieronegativi. Il siero dei pazienti conteneva anticorpi che attaccavano neuroni piramidali corticali  e neuroni dei gangli dorsali (Chandra, et al., 2010). Nel 2013 fu osservato che circa metà dei pazienti con sintomi cronici della malattia di Lyme e disfunzioni cognitive, presentavano anticorpi reattivi contro tessuti del sistema nervoso centrale (Jacek, et al., 2013).

La ME/CFS è diversa

Vale la pena osservare che il gruppo di Chandra ripetè lo stesso tipo di esame – per la ricerca di anticorpi anti-SNC – anche in 51 pazienti ME/CFS e scoprì che in questo caso non si riscontrava la presenza di attività del sistema immunitario contro il cervello (Ajamian, et al., 2015). Veniva così confermata una osservazione analoga di decenni addietro (Buchward D et al. 1991). Questo risultato potrebbe giustificare l’osservazione di alcuni autori secondo i quali le disfunzioni cognitive dei pazienti post-Lyme siano mediamente peggiori di quelle dei pazienti ME/CFS (Gaudino, 1997).

E le cellule T?

L’autoimmunità da autoanticorpi è solo metà della mela, quando si parla di autoimmunità. L’altra metà è rappresentata dalle cellule T autoreattive. Vale la pena osservare qui che in presenza di autoanticorpi è bene sospettare anche la presenza di cellule Th autoreattive, questo in virtù del meccanismo di attivazione delle cellule B. Ciò detto, alcuni studi suggeriscono la presenza di cellule T CD4+ che attaccano il sistema nervoso centrale, tanto nella Lyme acuta (Lünemann, et al., 2007), che in quela cronica (Martin, et al., 1988).

E allora?

Così come gli anticorpi contro un agente infettivo possono rimanare per anni o decenni, dopo che l’agente infettivo è stato sconfitto, allo stesso modo eventuali autoanticorpi indotti per errore durante la risposta immunitaria alla malattia di Lyme, potrebbero durare per alcuni anni (o per sempre) dopo che l’agente infettivo è scomparso. E’ difficile dire quale ruolo abbiano gli autoanticorpi e le cellule T autoreattive nella malattia di Lyme, ma è plausibile che siano responsabili – almeno in alcuni casi – dei sintomi cronici della malattia, e della mancata risposta agli antibiotici.

Casi di coinvolgimento del tronco encefalico nella malattia di Lyme

Questo articolo è una parte di un articolo più grande (vedi qui) da cui ho estrapolato solo le sezioni che riguardano la Lyme.

Una malattia della materia bianca?

E’ interessante notare che le alterazioni al livello del tronco encefalico descritte nella ME/CFS (vedi qui) in generale non si ritrovano nella post-treatment Lyme disease syndrome (PTLDS), una condizione spesso assimilata alla ME/CFS (vedi questo post). In effetti uno studio SPECT del 1997 su 13 pazienti con sintomi cronici della malattia di Lyme, rivelò ipoperfusione principalmente in regioni fontali (corticali e sub-corticali) (Logigian EL et al. 1997). Alcuni anni dopo, Fallon e colleghi riportarono (metodo SPECT) ipoperfusione nella materia bianca dei lobi parietali e temporali in 11 pazienti con PTLDS (Fallon B et al. 2003), e osservarono che la patologia si configurava come un disturbo della materia bianca. Anche Donta  e colleghi riportarono – in uno studio SPECT su 183 pazienti Lyme con sintomi cronici – ipoperfusione nei lobi frontali, parietali e temporali (Donta ST et al. 2012). Uno studio PET del 2002 evidenziò la presenza di ipometabolismo nei lobi temporali, parietali e frontali (Newberg A et. al. 2002) e uno studio analogo del 2009 confermò l’ipometabolismo nei lobi temporali e parietali, e anche nelle più profonde aree limbiche (Fallon BA et al. 2009). Coerentemente, l’uso della risonanza magnetica spettroscopica nella neuroboreliosi, ha rilevato un incremento significativo del rapporto Cho/Cr nella materia bianca dei lobi frontali, in assenza di lesioni apprezzabili del parenchima (Ustymowicz A et al. 2004) e un caso analogo è stato descritto nel presente sito (vedi qui). Emerge dunque una differenza sostanziale tra le anomalie della ME/CFS – che riguardano il tronco encefalico – e quelle della PTLDS, che invece incidono essenzialmente su materia bianca e grigia dei lobi temporali e parietali. Questa differenza probabilmente è dovuta al fatto che, sebbene la PTLDS venga spesso superficialmente accostata alla ME/CFS, di fatto solo una piccola percentuale dei pazienti PTLDS soddisfa i criteri per la ME/CFS (il 13%, secondo una stima, Bujak DI, 1996).

Infezione diretta del tronco encefalico

Detto questo, è possibile però rintracciare in letteratura descrizioni di malattia di Lyme con un coinvolgimento del tronco encefalico in almeno cinque casi, che riporto nel seguito.

  1. L’autopsia di un uomo (NY, USA) con demenza progressiva e fatale a seguito di esposizione a B. burgdorferi, rivelò gliosi nella substantia nigra (mesencefalo), oltre che nel talamo. Il trattamento antibiotico portò a un miglioramento temporaneo, ma la malattia recidivò dopo la fine del trattamento e il paziente è deceduto (Waniek C et al. 1995).
  2. La risonanza encefalica di un uomo di 28 anni (NY, USA) dimostrò zone iperintense al livello dei peduncoli cerebellari e della regione dorsale del pons (i peduncoli cerebellari collegano il cervelletto al tronco encefalico). Le medesime regioni erano sede di ipermetabolismo (PET). L’uomo aveva sierologia positiva per B. burgdorferi, e l’esame del liquor dimostrò la produzione intratecale di anticorpi per il medesimo battere, oltre che bande oligoclonali e aumento delle proteine. Si decise di somministrare ceftriaxone in vena per 1.5 mesi. Inizialmente le lesioni progredirono, per risolversi un mese dopo. La sierologia rimase positiva, sebbene attenuata (Kalina P. et al. 2005). Interessante notare che i sintomi prominenti del paziente – prima dell’intervento – erano movimenti non coordinati (atassia) e fatica.
  3. Una donna di 64 annia si presenta all’osservazione dello specialista  (Arau, Svizzera) dopo due mesi di dolore nucale, disartria (difficoltà nell’articolare le parole), dismetria (difficoltà nell’eseguire i movimenti fini), fatica e disbasia (disturbi dell’andatura). La risonanza magnetica evidenziava zone iperintense al livello del mesencefalo, del cervelletto, dell’ipotalamo e del talamo. Il trattamento con ceftriaxone in vena risolse i sintomi e le lesioni cerebrali (Haene A 2009).
  4. Una donna di 28 anni si presentò all’ospeale di Zurigo (Svizzera) con una storia di febbre, fatica, mal di testa, dolore nucale, vertigini, perdita di peso e un episodio recente di morso di zecca (8 settimane prima). Gli esami rivelarono la sintesi di anticorpi conto proteine di B. burgdorferi nel siero (IgM per OspC e IgG per OspC, p18, VlsE) e nel liquor (IgM per OspC, p39, VlsE e IgG per VlsE e p41). La risonanza magnetica evidenziò regioni iperintense al livello del tronco encefalico (pons) e nei nervi vestibolari. Gli esami liquorali per virus neurotropici (EBV, CMV, HIV, HSV, VZV) erano negativi. I sintomi si risolsero dopo 3 settimane di ceftriaxone in vena (Farsha-Amacker NA et al. 2013).
  5. Una donna di 54 anni si presenta nel 2009 in un ospedale olandese per problemi di vertigini, di coordinamento nell’andatura (andatura atassica), perdita di udito, dimagrimento eccessivo. La risonanza magnetica dimostrò diverse aree iperintense nella materia bianca di ambo gli emisferi. Gli esami del sangue risultarono normali. In seguito la donna si trasferì negli Stati Uniti e nel 2011 fu esaminata da degli specialisti della Università di Pittsburg i quali evidenziarono una condizione di fatica e debolezza associati a nistagmo, problemi cognitivi, dismetria, deambulazione atassica, Babinski positivo bilateralmente. Una nuova risonanza magnetica (2011) confermava la presenza di lesioni nella materia bianca periventricolare di ambo gli emisferi, ma anche nel pons e nel cervelletto. Un esame del liquor rivelò un elevato livello di proteine (324 mg/dl, rif. 15-45), elevato livello di IgG (65.6, rif 0.8-7.7), bande oligoclnali (IgG index = 0.89, rif. <0.6), produzione intratecale di anticorpi contro B. burgdorferi, in particolare per  p18 (DbpA), p23 (OspC), p41 (flagellina), p58 (?). Tuttavia la PCR risultava negativa per questo battere, nel liquor. Esami infettivi per virus neurotropici tutti negativi. Negativi anche tutti gli anticorpi anti-neuronali testati. Sulla base di questi dati, e sentito il parere di un infettivologo, si decise di intraprendere un trattamento di un mese con ceftriaxone IV (2 g/die) che portò a risoluzione della atassia e della sordità, con un miglioramento nella fatica. Nel 2012 la paziente esegue una risonanza di controllo in cui risultano ancora presenti le lesioni evidenziate nel 2011, ma leggermente ridotte quelle del mesencefalo. La paziente risulta migliorata nei suoi sintomi neurologici, ma permane una condizione di fatica cronica e di deficit nella memoria breve (Verma V et al. 2014).

Nei casi 2, 3, 5 esiste una relativa sicurezza che le lesioni mesencefaliche fossero dovute a infezione diretta da parte di B. burgdorferi, infatti le stesse sono regredite (casi 2 e 3) o migliorate (caso 5), dopo somministrazione di ceftriaxone in vena. Il caso 1 è anomalo – in quanto il paziente è deceduto – e non è stato possibile confrontare le lesioni prima e dopo il trattamento. Nel caso 3 non è stata fatta una risonanza di controllo dopo il trattamento. Possiamo tuttavia concludere che:

  • l’infezione diretta del tronco encefalico da parte di B. burgdorferi è possibile, anche se altri studi sono necessari per confermare questa affermazione, e per indicare la prevalenza del fenomeno.

Ovviamente non è possibile escludere che le lesioni siano un prodotto indiretto della infezione, come per esempio l’effetto di autoanticorpi contro il tronco encefalico, o fenomeni infiammatori dovuti a citochine contenute nel flusso sanguigno e penetrate attraverso la barriera emato-encefalica. Se consideriamo gli studi SPECT (Logigian EL et al. 1997), (Fallon B et al. 2003), (Donta ST et al. 2012) e PET (Newberg A et. al. 2002), (Fallon BA et al. 2009) già citati, dovremmo dedurre che un interessamento del mesencefalo nella fase cronica della malattia di Lyme non sembra probabile. Eppure questa conclusione è affrettata, infatti tutti questi studi sono su popolazione USA, e noi sappiamo che l’interessamento del parenchima cerebrale è raro in caso di B. burgdorferi sensu stricto (la specie diffusa in USA), ed è invece più frequente nel caso della specie europea B. garinii (Ogrinc K et Maraspin V, 2015). Coerentemente, i casi 3, 4, 5 riguardano infezioni europee (Svizzera nei casi 2 e 3, Olanda nel caso 5). Per questi pazienti non abbiamo un follow-up negli anni successivi, ad eccezione del caso 5, in cui si riporta fatica cronica e deficit di memoria, insieme alla persistenza delle lesioni, quantunque parzialmente regredite dopo antibiotico. Il mio interesse per danni nel tronco encefalico in caso di malattia di Lyme nasce dal fatto che questo genere di danni è stato riscontrato nella ME/CFS (vedi qui) ed è associato a disfunzione dei gangli della base.

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Figura 1. Sezione coronale del cervello, all’altezza dei gangli della base. Ho evidenziato il putamen e il globo pallido, che compongono il nucleo lenticolare. Ho indicato altresì il talamo, il mesencefalo e il pons, già trattati in precedenza. Mesencefalo e midbrain sono sinonimi.

Il tronco encefalico

Il tronco encefalico è costituito essenzialemnte da tre strutture, il mesencefalo e il pons, che descrivo nel seguito (vedi figura 1), oltre che dalla medulla.

  • Mesencefalo, una struttura anatomica da cui partono importanti vie dopaminergiche, in contiguità spaziale con l’ipotalamo, che costituisce la centralina del sistema nervoso autonomo e del sistema endocrino. Dal mesencefalo si dirama il nervo cranico III, che controlla il movimento dei bulbi oculari, la apertura dell’iride, e le palpebre (Johns P 2014).
  • Pons, appena sotto il mesencefalo, raccoglie una enorme quantità di fasci nervosi ascendenti e discendenti. E’ l’origine di fasci ascendenti di neuroni colinergici, e di neuroni noradrenergici. Dal pons emergono il nervo craniale VII, coinvolto nei muscoli facciali e nella sensazione del gusto (Johns P 2014).