The indiscreet rotation

En vano es vario el orbe. La jornada

Que cumple cada cual ya fue fijada.

Jorge Luis Borges, La Pantera

The world must be wonderful, beyond the muffled atmosphere of these rooms and the obstinate curtain of encephalopathy; now that Autumn is still a harmless chrysalis, an apparently unlikely threat, while the industriousness of men swarms again, in search of untouched paths.

The Autumn of intellectual and material adventures, of encounters and discoveries, remains an unfulfilled promise, which I nevertheless do not give up on cultivating. Because I don’t know if Ulysses kissed his stony Ithaca during this season, but I like to think so.

I am perpetually mocked by the indiscreet rotation of the wall clock, which turns on the spot; while Rilke’s panther remains trapped in my chest.

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I won’t surrender

I won’t surrender

“A man doesn’t fight to win.

It is better 

when the fight is in vain.”

Edmond Rostand

I have realized, talking with patients, that they have a wrong idea about the level of mental functioning that I have now. Consider that a good day for me is when, with all the will that I can find, I can go through a single page of calculations. And this happens rarely: I may have two or three days in which I can learn something or do some calculation, from my bed; then for weeks or months, I have to face a complete loss of understanding and my mental life is rudimentary. And of course, I spend about all my life at home, mostly on my bed. 

And this is a level that I am proud of, that I have reached only because I have continuously rewired my brain, always trying to learn again, from scratch, what I already knew: reading, mathematics, coding and so forth. And once I have learned again how to do these things, then I lose all again. And I have to climb the mountain one more time. All alone through the climb, because those who gain attention are always those who win with a thousandth of my efforts, not those who remain back.

The only possible way

I could have a normal life again

is by describing the pathophysiology of my disease

and this is also what pushes me to learn

as much as I can. I won’t surrender, as painful as it is

even if it’s useless because I don’t want to be defeated

without fighting back.

Vent’anni di silenzio

Quasi 20 anni fa, quando cominciai a stare male, la situazione si prospettò da subito non felice. Nessuno sapeva cosa avessi e in breve mi ritrovai con una forma di disabilità pervasiva e sconcertante. La cosa che più duramente mi colpì fu la disabilità cognitiva: non potevo più leggere, né pensare lucidamente. Quindi per me non ci sarebbe stato futuro.

Era finita. Il mio desiderio di studiare era velleitario e appariva chiaro che non avrei potuto fare più nulla con la mia testa, nonostante avessi dimostrato ottime capacità fino a poco prima. Nello stesso tempo, il corpo era diventato incapace di sostenere a lungo la posizione eretta o seduta e di portarmi fuori di casa.

Non c’erano cure, non c’era spiegazione. A 20 anni ero nelle condizioni di una persona estremamente anziana, non autosufficiente. Avrei voluto chiedere consiglio ai miei genitori, ma erano già morti da qualche tempo. Amici e parenti scomparvero, il telefono smise di suonare e ricominciò solo con l’arrivo dei call center.

Ancora oggi mi chiedo perché le persone che mi conoscevano, gli amici stretti di famiglia o i parenti, scomparvero senza salutare. Nelle mie condizioni fu una condanna a morte. La malattia di cui soffrivo non veniva trattata negli ospedali e non era neanche conosciuta dalla scienza o riconosciuta legalmente. Non mi erano concessi i diritti di cui godono cittadini con disabilità anche molto minore della mia. Per me non c’era nulla, solo silenzio.

Oggi resta un senso di amarezza e incredulità per la brutalità gratuita di quel silenzio, per le mancate spiegazioni, e per l’incoraggiamento negato, davanti a una difficoltà così enorme.

Convegno nazionale sulla ME/CFS, Paolo Maccallini

Quello che segue è il mio intervento durante il convegno nazionale sulla ME/CFS tenutosi a Thiene,  tappa italiana dell’End ME/CFS Worldwide Tour. L’intervento è molto denso e veloce, ho dovuto condensare 4 anni di ricerche in 30 minuti. Qualcuno ha notato che sembravo dopato. Lo ero, letteralmente: ero alla fine di un lungo trattamento cortisonico e avevo assunto modafinil per la circostanza. Altrimenti non sarei riuscito. Le slide usate per questo intervento, insieme ad altre che non ho avuto modo di far vedere al convegno, sono disponibili qui. Sotto il video c’è un sommario del contenuto dell’intervento, e il momento del video in cui i vari argomenti sono stati trattati. Ringrazio Giuseppe Pozza per aver realizzato il video.

  • Note biografiche, criteri diagnostici e disturbi cognitivi (00:50)
  • Intolleranza ortostatica (08:39)
  • Citochine (09:45)
  • Citotossicità delle NK (11:15)
  • Disfunzioni metaboliche (12:40)
  • Anomalie del sistema nervoso centrale (20:50)
  • Anomalie del microbioma (22:40)
  • Analisi genetica (24:20)
  • La mia ricerca su Lyme e autoanticorpi (27:50)
  • Anticorpi anti-muscarinici e anti-beta adrenergici nella M/CFS (32:20)
  • Studi a cui ho partecipato come paziente, conclusioni e ringraziamenti (34:53)

Riascoltando il mio intervento ho provato stupore nel constare, forse per la prima volta, come la mia mente sia sopravvissuta. Solo io posso sapere cosa ho passato, nessuno sa che per gli ultimi 17 anni sono stato incapace di pensare per più del 90% del tempo. E non intendo incapace di risolvere sistemi di equazioni differenziali; no, intendo incapace di sostenere una conversazione o di leggere un libro.

Nonostante sia stata così colpita dalla malattia, nonostante sia stata privata di stimoli, nostante la solitudine estrema, i farmaci inutili e il consumarsi dei lustri, è sopravvissuta. Questo organo di un chilo e mezzo scarso che mi contiene tutto, che ha perso così tanto, che ho dato per spacciato tante volte, è sopravvissuto. La vita vuole vivere e non si arrende.

Per quelli che restano

Alcuni pazienti ME/CFS diventano visibili solo quando se ne vanno. Quando girano le loro foto sui social network, non è un buon segno; e io trattengo il fiato. È un argomento delicato, ho evitato accuratamente di toccarlo prima, ma sembra che la prevalenza del suicidio in questa malattia sia piuttosto alta: in uno studio che analizzò la causa di morte di 56 pazienti ME/CFS severi, risultò che 15 si erano suicidati (McManimen S et al. 2016). Ogni mese è una conta dei caduti, nella comunità internazionale di pazienti.

Perdita drastica di funzionamento cognitivo, limitazioni fisiche, rinuncia forzata alle proprie aspirazioni, mancanza di assistenza medica ed economica, incomprensioni all’interno dello stesso nucleo familiare e amicale, emarginazione, umiliazioni; sono alcune delle possibili motiviazioni dietro queste scelte fatali.

Robert Courtney ha contribuito all’ottenimento dei dati grezzi del famigerato PACE trial e ha pubblicato uno studio sulla ME/CFS, tra le altre cose (R). Si è tolto la vita a 48 anni, dopo un peggioramento della sua condizione. Era malato da 13 anni (R, R).

Lo studio di cui è co-autore rappresenta una analisi critica del PACE trial. Un lavoro nato dalla collaborazione di un gruppo di pazienti-ricercatori con la Columbia University (USA), la University of Wellington (Nuova Zelanda) e la University of California (USA).

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Agenda

Nascosto come un topo
rannicchiato
tra vestiti sparsi libri resti
dei tentativi di evasione
dal vuoto
che ovunque tu vada
ti rimette al centro
che razza di gioco!

La spada non serve la forza
il nemico è oltre lo specchio
dietro quegli occhi cerchiati
ci sei tu
l’impegno e la volontà
non valgono più
le regole sono diverse qui si cerca
il tesoro la formula magici
infiniti da ripetere all’infinito
provare aggiungere togliere
cambiare combinare sperare
disperare.

Si ferma il tempo sulla strada
sei una lancetta indecisa
apri il fiume di gente
che si richiude e non ti vede
un giocattolo di latta
non può ricaricarsi da solo.

Si ferma il tempo in questa stanza
resti solo resta
una penna esaurita
sulle pagine di un’agenda
senza memorie.

Abusi sui pazienti

In questo video su una commissione dell’U.S. Department of Health and Human Services (HHS) sulla ME/CFS, uno degli oratori (dr. Gary Kaplan) denuncia il fatto che alcuni dei pazienti subiscono maltrattamenti da parte dei propri medici, tanto da sviluppare un disturbo post-traumatico da stress (PTSD, post-traumatic stress disorder, quello che si può riscontrare in donne che subisco violenza sessuale o nei sopravvissuti a catastrofi o a guerre, per intenderci).

Il problema della ostilità del personale medico nei confronti dei pazienti ME/CFS è stato sollevato anche nella revisione della letteratura del 2015 ad opera dell’Institute of Medicine, dove si legge “Once diagnosed, patients often complain of receiving hostility from their health care provider as well as being subjected to treatment strategies that exacerbate their symptoms“.

Credo che questa ostilità e il pericolo di traumi ulteriori per i pazienti sia un problema anche in Italia, se vado con la memoria ai medici con cui ho avuto a che fare io negli ultimi 16 anni. Probabilmente il maltrattamento avviene ai danni dei pazienti più deboli e soli, soprattutto giovani e donne.

E si può aggiungere che a volte questi stessi abusi vengono perpetrati da parenti e amici, nel chiuso delle case, nell’omertà generale. I pazienti non sanno come difendersi perché non riescono a “dimostrare” la propria disabilità (perché è difficile obiettivamente, sebbene possibile in un certo numero di casi). A volte si sentono in colpa, perché essi stessi finiscono per dubitare della propria malattia, visto che questa è negata da tutti coloro che li circondano, dai medici ai congiunti.

La risposta migliore all’arroganza di questi individui è la scienza, con cui non hanno molta dimestichezza, come il loro approccio dogmatico evidenzia. Inoltre bisogna anche imparare a deunciare, e a chiedere aiuto nel caso si verifichino episodi di questo tipo.

“I malati rari devono cavarsela da soli”

Alcune settimane fa mi sono trovato davanti a un funzionario pubblico, con un ruolo di rilievo, che come risposta a delle richieste di servizi minimi e banali che mi spettano di diritto, ha osservato: “i malati rari devono cavarsela da soli”.

Sono passati due mesi da allora, e questa sua battuta, proferita con sicurezza, come se fosse una verità ovvia per lui, mi torna in mente in modo prepotente. Non lo diceva con rammarico, ma come una sorta di rimprovero o ammonimento, come si farebbe con uno studente che ha copiato: “i compiti devi farli da solo”.

Ho pensato alla mia storia, a tutto quello che ho dovuto passare negli ultimi 15 anni, alle umiliazioni, la sofferenza, i sacrifici, il lavoro fatto in solitudine sui libri per definire la diagnosi, le trasferte dolorose e spesso inutili in centri specialistici di ogni angolo di Italia; per arrivare un giorno davanti a lui a chiedere un servizio di assistenza minimo e banale, di cui non posso fare a meno, e avere quella risposta.

Probabilmente si dovrebbe chiedere un provvedimento disciplinare nei confronti di questa persona, ma per me sarebbe un lavoro troppo oneroso, viste le mie condizioni. Penso però a Fra Cristoforo che davanti a Don Rodrigo, punta il dito e esclama profeticamente: “…e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno… “

La storia di Tom

La storia di Tom

Più di tre anni fa, Tom Camenzind, frequentava il secondo anno del corso di scienze informatiche a Stanford. Aveva ricevuto offerte di lavoro da Facebook e Dropbox e fino a quel momento non aveva avuto alcun problema di salute.

Poi, nel gennaio 2014, ha contratto un’infezione respiratoria da cui non si è mai ripreso. Nei mesi di febbraio e marzo dello stesso anno Tom riusciva ancora – seppure con estrema difficoltà – a rispettare gli impegni di studio, ma in seguito a un secondo episodio infettivo (aprile 2014) la sua condizione è ulteriormente deteriorata.

Dall’agosto del 2015, Tom trascorre la maggior parte del suo tempo nella camera da letto, al buio. Quando è pronto per i suoi tre pasti, preme un tasto collegato a un campanello, sussurra ai suoi genitori quello che vorrebbe avere e poi mangia su una sedia accanto al suo letto. Il suo eloquio è limitato a parole semplici che soddisfano i bisogni fondamentali (Katie Gu, gennaio 2016).

Oggi Tom è cosciente ma annichilito dalla malattia, e vive nella casa dei suoi genitori a San Ramon, in California. È totalmente paralizzato e può comunicare con i suoi genitori, Mark (ingegnere) e Dorothy (medico), solo attraverso un campanello elettronico che usa per chiamarli. Non può tollerare i rumori del mondo esterno, la luce o gli stimoli tattili. Viene nutrito attraverso un tubo inserito direttamente nello stomaco.

Quando suona la campana attivata dal sensore, i genitori di Tom corrono al suo fianco. Tom non può fare niente, non è autonomo. A 23 anni, è sulla soglia della vita, ma non può attraversarla. Respira e pensa, ma non può vivere la sua vita (Llewellyn King, agosto 2017).

La presentazione clinica di Tom Camenzind, con una disabilità estrema sia dal punto di vista cognitivo che fisico, sembra ricordare da vicino quella di Whitney Dafoe.

 

 

 


 

 

 

 

 

 

The half-full glass

The half-full glass

This is for the most part the translation into English of an article I wrote in Italian about Whitney Dafoe, several months ago.

Patient zero

The 2016 edition of the Personalized Medicine World Conference (PMWC) (program) was held in San Francisco, about a year ago. During the second day of this meeting, Dr. Andreas Kogelnik, a physician and bioengineer at the Open Medicine Institute, presented some of the data on the energy metabolism of a young man suffering from ME/CFS, as an example of application of newly available metabolomic tests in difficult and still poorly understood conditions. The patient we are talking about is the son of Ronald Davis, a famous geneticist at Stanford University who is currently engaged in an ambitious research program on ME/CFS, at the Open Medicine Foundation. It is Kogelnik himself who reveals in his speech the identity of the man whose metabolic data he is talking about, and on the other hand, the unfortunate events of this man were made public by his own family, in order to stimulate scientific research and investments for ME/CFS. The touching story of the progressive decline in intellectual and physical functioning of Whitney (that’s his name), has been told in this video:

A photographer and a photo of his metabolism

Whitney, who is now about 35, is no longer able to move from his bed, to read, and to communicate with his parents. He was previously a popular photographer and has traveled the world. This is his personal website. The latest update (2013) says: “Really sick.  I can’t talk. Can’t type/text enough to communicate. Haven’t had a conversation with someone in 6 months…” Whitney is a peculiar case, both because he has a particularly severe manifestation of ME/CFS (but there are other patients like him), and because his father is a professor of genetics at one of the world’s top universities (Stanford University). And what could a father-scientist do in order to save a son with an incurable condition? He studies, of course! But he does not restrict himself to scour compulsively scientific publications or biology books; he sets up a team of researchers, seeks funds to finance them, and invents new technologies to fight the disease. In the video of the intervention by Andreas Kogelnik, we can see the first outcomes of his efforts. In particular – at minute 8 – we have an eloquent snapshot of Whitney’s energy metabolism (see figure below).

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Joule and glucose

Before examining Whitney’s metabolic data, let’s recall briefly that the process by which our cells extract energy from the chemical bonds of glucose, consists of two phases. The first, glycolysis, occurs in the cytoplasm (outside mitochondria) and allows to obtain two molecules of ATP from each molecule of glucose. The by-product of glycolysis consists of two molecules of pyruvate, for each molecule of glucose processed. But this by-product is the fuel that feeds the second stage, which occurs within the mitochondria. In this second phase, pyruvate is converted into acetyl-CoA (with the synthesis of 3 molecules of ATP for each molecule of pyruvate), and the acetyl-CoA is then sent to the Krebs cycle (also called the citric acid cycle), where 12 more molecules of ATP are produced, per molecule of acetyl-CoA. More precisely, the Krebs cycle produces one molecule of ATP, three of NADH and one FADH2; these last two molecules are sent to the oxidative phosphorylation (mitochondrial membrane) where they are used to synthesize a total of 11 molecules of ATP. The conclusion is that one molecule of glucose allows to produce 2 molecules of ATP in the cytoplasm, and 36 molecules within the mitochondria. (More recently a reinterpretation of the experimental evidence has suggested a slightly different result of 31 molecules of ATP from a molecule of glucose). These are the basics of the energy balance within cells. The issue becomes more complex when one considers that fatty acids and some amino acids are used by mitochondria in order to produce energy.

Half is not enough

What about the snapshot of Whitney’s energy metabolism? When an account is taken of the fact that the data were presumably divided by the mean of the values from healthy volunteers, it appears clear that his generator is running at about half of the average power. In fact, pyruvate (the end product of glycolysis) is about 0.6 of the average value, and all the metabolites of the Krebs cycle are comprised between 0.4 and 0.7. Accordingly, the level of glucose in the blood is slightly increased (Whitney’s pancreas struggles to avoid hyperglycemia, evidently), while the level of the lactate is equally low (lactate is produced from pyruvate). Now, if the cellular energy generator delivers a power (energy released per unit of time) equal to 50% of what the body normally produces, you would expect that those organs with the highest energy requirements, such as the brain and muscles, are those which would suffer the most. And this theoretical model, based on real data from Whitney’s thermodynamics, would explain his symptoms. Of course, other interpretations are possible.

Outside the Krebs cycle

But where is the block in Whitney’s cellular energy generator? If glycolysis operates at 50% and if it is the glycolysis that fuels mitochondria, the answer seems simple: the block is in the cytoplasm, i.e. in glycolysis itself, outside the mitochondria. This interpretation of the data is consistent with what shown by Christopher Armstrong and his colleagues of the University of Melbourne, in 2015. The research team was indeed able to highlight a block of glycolysis, analyzing the normal panel of the organic acids in the blood and in the urine of 34 patients with ME/CFS (Armstrong CW et al. 2015). The hypothesis of a block of glycolysis is also compatible with the recent European work on ME patients from Pisa (Italy), in which an over-expression of two fundamental mitochondrial enzymes has been demonstrated (see this post). In fact, if the mitochondria were subjected to shortness of fuel, it would be logical to think that the number of their enzymes would increase, in order to extract every possible joule from the available substrate.

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Hypometabolism as an adaptation

Another possible explanation for the overall depression of the energy system (inside and outside mitochondria) is the one provided by Robert Naviaux, in his recent publication on the metabolism of ME/CFS patients. According to his vision, mitochondria are partially turned off, as a response to a persistent or past environmental threat (mainly infections or toxic substances); this response is an evolutionarily conserved mechanism, whose role is to protect the body from the threat, a bit like fever is a defense system that promotes the immune response against a virus or a bacterium. If this was true, the mitochondria block should be managed in concert with the glycolysis block, you would have the accumulation of toxic substances, such as lactate, otherwise. So this hypothesis fits well with the experimental data on Whitney. It is interesting to note that recently a similar mechanism has been described as a possible basis for bacterial persistence: exposed to antibiotics, bacteria turn off their energy metabolism and thus survive to these chemicals which, for the most part, target enzymes of their metabolic machinery (Shan Y et al. 2017). This makes a lot of sense since more than 1.45 billion years ago mitochondria were in fact bacteria (R). So Whitney’s hypometabolic state could in fact represent an evolution of bacterial persistence.

Conclusions

Whitney’s metabolism reveals an overall halving of the power delivered by the power generators of his cells. Apparently, the defect is in the initial part of glucose metabolism, outside the mitochondria, and of course, it is reflected on mitochondrial metabolism, which is depressed. However other interpretations of these data are possible, such as the one proposed by Naviaux and colleagues, of an overall depression of the energy system as an evolutionarily conserved response to external threats (real or perceived). In addition, although a reduction in energy of 50% would seem to explain the symptoms, it is not possible to say, at present, whether this reduction is the cause of the disease, rather than just one of its many consequences.

La storia di Whitney Dafoe

La storia di Whitney Dafoe

Whitney, che ora ha approssimativamente 33 anni, da alcuni anni non è più in grado di spostarsi dal suo letto, di leggere, e di comunicare con i suoi genitori. In passato è stato un apprezzato fotografo e ha girato il mondo. Questo è il suo sito personale. L’ultimo aggiornamento (2013) dice: “Molto malato. Non posso parlare. Non posso scrivere abbastanza per comunicare. Non intrattengo una conversazione con qualcuno da sei mesi…” Whitney è un caso singolare, sia perché ha una manifestazione particolarmente grave di ME/CFS (ma ci sono altri pazienti come lui), sia perché suo padre è un professore di genetica presso una delle migliori università del mondo (Stanford University). E cosa può fare un papà-scienziato per salvare un figlio affetto da una condizione incurabile? Studia, certo! Ma non si limita a perlustrare compulsivamente le pubblicazioni scientifiche o i libri di biologia; mette in piedi un’intera squadra di ricercatori, cerca fondi per finanziarli, e inventa nuove tecnologie, per combattere la malattia. Ho discusso alcuni dettagli del suo caso – resi pubblici dai familiari – in questo articolo.

La storia e di Whitney è raccontata nei tre video che riporto in seguito, e in questo video.

Risvegli

Risvegli

Dal libro ‘Awakenings‘, di Oliver Sacks:

“Alcuni dei pazienti avevano raggiunto una condizione di algida disperazione simile alla serenità: una disperazione perfettamente realistica, prima dell’arrivo della L-DOPA: erano consapevoli di essere condannati, e lo accettavano con tutto il coraggio e la dignità di cui erano capaci. Altri pazienti (e, forse, in qualche misura, tutti loro, nonostante la loro serenità apparente) manifestavano un sentimento di sdegno, rabbioso e impotente: erano stati derubati dei migliori anni della loro vita; erano consumati da un atroce senso di perdita e spreco irrimediabile; e bramavano un doppio miracolo – non solo una cura per la loro malattia, ma anche un impossibile risarcimento per la perdita delle loro vite. Volevano che fosse restituito loro il tempo perduto, che fosse permesso loro di risvegliarsi magicamente nel fiore degli anni.”

Ho tradotto liberamente, perché queste parole mi appartengono: potrei averle scritte io. Il film tratto da questo libro lo avrò visto centinaia di volte, durante la malattia. Mi ha fatto compagnia, come un sogno ricorrente, in questo lungo sonno. E ora leggere il libro è come adempiere una vecchia promessa. All’inizio pensavo che la condizione di quei pazienti rappresentasse una metafora di quello che stavo vivendo. E l’attrazione era puramente emotiva, basata su una risonanza affettiva con le storie di quei malcapitati. In seguito – studiando – la encefalite letargica è tornata a popolare i miei pensieri in un modo molto più concreto, e molto più vicino al substarto biologico della mia condizione.

Ho impiegato anni a capire che i miei tentativi miracolosi, e disastrosi allo stesso tempo, con agenti dopaminergici, ricalcavano – fatte salve le differenze – i tentativi pioneristici di Oliver Sacks con L-DOPA nei suoi pazienti. Ho dovuto aspettare anni perché un neurologo rilevasse segni di parkinsonismo, che in misura molto modesta mi hanno accompagnato per 15 anni. E ho dovuto aspettare anche molti anni per collegare la mia patologia a una ben precisa infezione neurotropica e a disordini immunitari. Così, un po’ alla volta, la mia simpatia per i pazienti post-encefalitici di Oliver Sacks, è diventata complicità e una sorta di fratellanza. Loro sono stati colpiti in modo ben più tragico di quanto lo sia stato io, e per molti versi in modo differente. Ma la loro dignitosa sopravvivenza, la loro lotta immobile (una lotta tutta interna, congelata), in attesa del risveglio, ha rappresentato un insegnamento in questo lungo viaggio. Allo stesso tempo, in tutti i miei tentativi, nell’aggiungere e nel togliere una sostanza, nel modificare i dosaggi, nel cercare il mio L-DOPA (usando a volte molecole con azione anche vagamente affine, come la selegilina o il pramipexolo) ero – più o meno consapevolmente – un imbranato e improvvisato epigono del dr. Malcom Sayer (l’alter ego cinematografico di Oliver Sacks).